Disertare l’imposizione della falsa alternativa

Propaganda di guerra e stato d’emergenza sullo sfondo della crisi ucraina

E’ possibile e avrebbe senso analizzare un’opera cinematografica e gli attori protagonisti dopo aver visto solamente i minuti finali di un film? E’ possibile e avrebbe senso analizzare un atto di guerra e gli attori in campo partendo dal momento in cui viene sparato il primo colpo? Senza neppure considerare una vicenda bellica nel suo complesso? Crediamo di no. Ma a questo stiamo assistendo dal 24 febbraio 2022. E’ un piano della discussione che non intendiamo accettare e che non riteniamo possa essere rovesciato attraverso le analisi geopolitiche che intasano quotidianamente i media di ogni forma e colore. I media, partiamo da loro.

Proprio l’imponente campagna di arruolamento – politico, culturale e sociale – a mezzo stampa è uno dei nodi della questione. Lo è ancor più nel nostro paese in cui i mezzi di informazione mainstream si distinguono nel mondo – non solo ‘occidentale’ – per volgare asservimento e spudorato appiattimento sulle posizioni governative. Questo punto, che non riguarda solo la crisi odierna e rispetto al quale si stenta ancora a trarne le dovute conclusioni, va ben oltre il mantra “La verità è la prima vittima della guerra”, frase per lo più utilizzata da ogni giornalista come prologo alla più becera propaganda. L’arruolamento occidentale rispetto alla guerra in corso è iniziato settimane prima che le armi iniziassero a sparare, una campagna mediatica senza precedenti volta a preparare il terreno per quanto sta accadendo nelle ultime settimane: una corsa al riarmo inedita per estensione e accelerazione che in Italia ha portato al voto della Camera di mercoledì 16 marzo ad aumentare le spese per la Difesa, leggi spese militari, al 2% del PIL, pari a 38 miliardi di euro annui, 104 milioni di euro al giorno. Tutto questo, però, non è altro che un’accelerazione di un percorso già in atto: “Ci dobbiamo dotare di una difesa molto più significativa e bisognerà spendere molto di più di quanto fatto finora”, aveva detto Mario Draghi il 29 settembre 2021 e senza contare l’ultimo voto della Camera, le spese per le armi per il 2022 arrivavano a 26 miliardi di euro, un record storico per l’Italia. Una corsa al riarmo fatta passare quasi in sordina e in ogni caso presentata come inevitabile, appelli istituzionali al reclutamento di foreign fighters, un coro unanime di ‘armiamoci e partite’ diffuso a reti unificate. Una gara tra gli stati europei a chi è più interventista, che ha scavalcato senza alcun dibattito quella residua parvenza di formalità democratica e istituzionale – verso cui non nutriamo certo fiducia o speranza – che sarebbe richiesta per passaggi decisionali di questa portata.

In Italia, inoltre, sia Draghi che Mattarella si sono contraddistinti per interventi caratterizzati da una durezza del tutto irrituale. Durezza che d’altra parte trova riscontro nel linguaggio giornalistico e che contribuisce alla rappresentazione del quadro che ci troviamo di fronte. La persistente escalation narrativa sulla guerra atomica viene condita da continui appelli al ‘No alla psicosi nucleare’, ma come ci insegna Lakoff, ripetere di “non pensare all’elefante” produce esattamente l’effetto contrario, e così quella che al momento è poco più di un’ipotesi rischia di trasformarsi in una profezia che si autoavvera. Aggiungiamo che in questo senso – e non solo – il campo è stato preparato dai due anni di pandemia che hanno preceduto gli eventi del febbraio 2022: nel corso della crisi sanitaria il linguaggio di guerra è stato usato a piene mani ed è stato sufficiente traslarlo – amplificandolo – nel contesto attuale, dove la guerra non è più solo evocata. La guerra c’è, e la propaganda nomina eroi e traditori.

Questo scenario da Zio Sam nel nostro paese non poteva non essere arricchito da una misura che ci vede ancora una volta ‘in prima linea‘ in Europa: la dichiarazione di un nuovo stato di emergenza, fino a dicembre 2022. Uno strumento che abbiamo imparato a conoscere molto bene negli ultimi due anni e che – naturalmente – non ha alcun fondamento ed è del tutto strumentale. Le problematiche derivanti dal conflitto in Ucraina, dall’accoglienza dei profughi all’approvvigionamento delle fonti energetiche, possono essere gestite al di fuori della cornice giuridica dell’emergenza. Cornice giuridica che però è stata imposta per legittimare l’invio di armamenti a una fazione belligerante, un atto che certifica il sostanziale coinvolgimento bellico in spregio alle apparenze di osservanza costituzionale sopra richiamate. Oramai la condizione emergenziale appare un riflesso incondizionato, un muscolo involontario che si muove da sé, sebbene in realtà spinto da chiare finalità politiche volte a ‘gestire’ il climax bellicista in ogni sua forma.

Lo stato d’emergenza è condizione necessaria ad una governamentalità capace di prevenire prese di posizione contrarie e opzioni conflittuali, ma anche di rendere socialmente assimilabili ed ammissibili misure in campo economico ed ambientale che in condizioni ordinarie non sarebbero tollerate. Tutto ciò concorre alla creazione di una narrazione in cui viene presentata esclusivamente una falsa alternativa, un binarismo coattivo all’interno del quale viene ricondotta qualunque presa di parola, anche il solo tentativo di problematizzare l’analisi. Per questa ragione rifiutiamo l’ordine del discorso e le alternative che esso ci pone. In questi giorni abbiamo assistito a come, ai minimi accenni di ragionamento complesso e non appiattito sulla difesa dei sacri e totemici valori occidentali (quali sono? dove trovano riscontro pratico? forse nei migranti lasciati morire nel Mediterraneo e ai piedi dei muri eretti sui confini degli stati europei o nel delirio di razzismo antirusso contro artisti e atleti in questi giorni?) sia scattato il meccanismo liquidatorio di etichettamento: sei con Putin. Questi attacchi – e qui sta il paradosso – vengono scagliati il più delle volte da figure che hanno per anni appoggiato, sponsorizzato, avuto rapporti economici e politici con il leader russo e con la sua lobby. Naturalmente non parliamo solo di editorialisti alla moda o esponenti di lega o cinquestelle ma di un’intera classe dirigente che ha finto di cadere dal pero, come se Putin fosse improvvisamente in preda ad un attacco di follia e non stesse al contrario perseguendo una strategia che è parte di una traiettoria che non nasce certamente ieri.

Per quanto ci riguarda non esiste alcun giustificazionismo o riduzionismo rispetto a quanto sta producendo Putin in termini di morte e distruzione, il nostro giudizio nei suoi confronti non è maturato in qualche settimana; ma rifiutiamo anche la retorica della reductio ad Hitlerum, non solo perché inconsistente, ma soprattutto perché funzionale proprio a quel binarismo cui si accennava. In questo dualismo l’altra parte in causa è senza dubbio la NATO, perché se è vero che a morire sono i civili ucraini, rappresentare lo scontro in atto limitandolo ad una guerra tra Russia e Ucraina è quantomeno improprio. Le responsabilità della NATO non possono essere derubricate o fatte passare in secondo piano, e non solo per quanto sta accadendo ora. Sin dallo scioglimento del patto di Varsavia, e più di recente, passando per la presidenza ‘progressista’ dell’acclamato Barack Obama, in complicità con la ‘rimpianta’ Angela Merkel, l’occupazione – non dimentichiamoci che sono molteplici gli strumenti per attuarla – dei territori e delle economie dei paesi dell’est è stata violenta e fortemente militarizzata: ancora una volta non si può fotografare solo la scena finale di un processo.

Questo ci porta inoltre ad un’ulteriore considerazione: lo scontro in atto non è – come viene ripetuto costantemente – tra due sistemi valoriali ed economici diversi ma è tutto all’interno del sistema capitalista, che non da ora sta cercando di ristrutturarsi anche attraverso conflitti in corso su scala globale. Ciò che si vorrebbe rappresentato da Putin non si trova su un altro campo rispetto a quanto si vuole rappresentato dalla NATO, non si tratta che di espressioni di una medesima visione del mondo. Dovrebbe essere evidente, ma se così non fosse basti pensare alle guerre degli ultimi decenni e al differente metro di giudizio utilizzato in Jugoslavia, Afghanistan, Siria, Yemen, etc. Per questo non possiamo dimenticare un altro aspetto altrettanto evidente: noi – il ‘noi’ inteso come soggetto politico che si pone una prospettiva di trasformazione della realtà, ma pure un ‘noi’ più indistinto di abitanti privilegiati (non sappiamo ancora per quanto) di questa parte del mondo – in guerra ci siamo da anni, ne siamo parte. Una guerra che ha avuto e ha fasi differenti, più o meno cruente, ma che è già realtà. Per tutte queste ragioni il nostro agire politico non può tradursi in una mera richiesta di ‘fine della guerra’, perché questo implicherebbe comunque – a prescindere dalle argomentazioni – una conferma materiale della legittimità delle strategie espansionistiche occidentali e Nato. In questo riscontriamo i limiti del pacifismo che – comprensibilmente e spesso in maniera spontanea – ha trovato espressione nelle piazze di queste settimane. All’interno del quadro mediatico, culturale e politico che abbiamo descritto non c’è spazio per questa posizione, tutto viene reso compatibile, il ‘né / né’ si trasforma inevitabilmente in ‘aut / aut’. L’unica chiave di lettura che crediamo efficace e coerente, e che in questi ultimi giorni si sta facendo spazio a fatica, grazie al tentativo di una presa di parola autonoma che inizia a prendere forma, è quella della diserzione: una diserzione intesa in senso sia immaginifico che materiale, per sottrarsi dal regime discorsivo imposto e per un futuro in cui la guerra non rientri nel campo delle scelte possibili.

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