E voi, come vivrete? Su ‘Il ragazzo e l’airone’

Pubblichiamo questo testo di Emanuele Tartuferi originariamente comparso sui social network, come commento a caldo dopo la visione dell’ultimo film di Hayao Miyazaki “Il ragazzo e l’airone”. L’autore ha anche organizzato momenti di incontro dove ha discusso la poetica del cinema di Miyazaki inserendola in un discorso che intreccia vino, ecologia e immaginario.

Le sirene di allarme antiaereo suonano. Un ospedale in fiamme e la corsa disperata di un bambino per salvare la madre. Bombe e carrarmati. Inizia così Il ragazzo e l’airone di Hayao Miyazaki, alla stessa maniera delle immagini da Gaza che tempestano le storie Instagram del mio smartphone da mesi. «Il film non dovrebbe essere indulgente sulla sua epoca», affermò Miyazaki anni fa in un’intervista.

C’è chi ha detto e scritto che Miyazaki in questo film ‘accetta‘ la guerra. Non sono d’accordo, anzi Il ragazzo e l’airone è uno dei suoi lavori più sinceri e spietati sull’attuale barbarie del mondo. A partire dalla scelta di non mettere in scena il volo dell’uomo. E non poteva essere altrimenti dopo Si alza il vento, riflessione amara sul peggior crimine di cui l’uomo si sia mai macchiato: aver trasformato il sogno realizzato del volo in un’orrenda e anonima macchina di sterminio.

Il volo è lasciato alla moltitudine di uccelli che straripano dallo schermo, spingono il piccolo protagonista Mahito in un limbo dionisiaco dove vivi e morti, sogni e realtà coabitano. Un’isola nel mare di Gilgamesh. Un luogo senza tempo, o meglio in cui il tempo è mineralizzato, le pietre come memoria del mondo. Il ragazzo e l’airone è il film più minerale di Miyazaki: è humus – continua morte e rinascita – è macerie, suolo che inghiotte, polvere e letame, pietra extraterrestre: la Torre/meteorite che spalanca le porte dell’altrove.

Pieno di citazioni dei suoi primi film, tornano le rovine che in Lupin e il Castello di Cagliostro erano il tesoro più prezioso, la continuità della vita indistruttibile: ogni fine di un mondo è l’inizio di un altro. La pietra di Laputa era magica: eleva dal suolo, porta all’utopia del Castello nel cielo. Qui invece le pietre assumono molteplici significati, vengono usate dal prozio per provare ingenuamente a costruire un equilibrio del mondo, custodiscono il passaggio dalla vita alla morte e viceversa, illuminano il mondo ctonio, sotterraneo: sono memoria minerale dell’universo, splendente e luccicante.

La carta, come già nella Città incantata, attacca il viso di Mahito e della sua matrigna e può rendere ciechi: l’eredità scritta e disegnata che noi umani lasciamo al mondo è preziosa ma effimera.

Compresa quella del regista. C’è invece un pensiero che va al di là dell’umano, dell’individuo, la Terra stessa è pensiero: minerale, vivo. Miyazaki in tutti i suoi film ha provato a comunicarci l’intelligenza della vita in tutte le sue forme – perfino delle pietre – la potente eteroglossia dei viventi: tanti linguaggi diversi che qui proliferano come i personaggi. Ogni incontro è inizialmente difficile, conflittuale, richiede conoscenza reciproca: occorre andare incontro alla diversità. Una delle chiavi del film è che Mahito accetta come mamma Natsuko, la nuova compagna del padre, e la morte della sua vera madre. Nei film di Miyazaki ci sono sempre tanti possibili livelli di lettura, alcuni immediati: Sophie nel Castello errante di Howl è una ragazzina che accetta di avere i capelli bianchi; Chihiro nella Città incantata di essere innamorata di un fiume, e così via.

È probabilmente il suo film più caotico, spezzato, profondamente spaesato e per questo attuale: c’è chi, legittimamente, non lo apprezzerà, ma come al solito bisogna guardarlo con gli occhi di quel bambino che abita in ognuno di noi.

A un certo punto il vecchio prozio dice che “il mare di fiamme”, nel mondo reale, è in arrivo. Nessuna speranza all’orizzonte, Miyazaki è tremendamente sincero – Mahito vuol dire proprio questo, “essere sincero” – ma nonostante ciò ci invita a vivere intensamente, a non scappare in impossibili utopie e allo stesso tempo continuare ad abitare i margini, i crocevia; accettare gli altri, affrontare i conflitti, gli amori e le amicizie più complicate, come nel rapporto di incontro e scontro del ragazzo con l’airone, Virgilio malandrino e bugiardo, spirito-guida sfaccettato e ironico.

È un mondo di guerra e barbarie quello che abitiamo: Mahito nel film non ride mai, tranne quando incontra i Warawara (la vita nuova), quando mangia il pane con la marmellata della mamma e quando riporta Natsuko nel mondo di sopra.

Appena dieci secondi in due ore di film. Qualche critico ha lamentato la mancanza di carattere e di empatia del protagonista, ma è proprio questa sua distanza dal mondo a renderlo vero. A partire dalla depressione iniziale, la ferita auto-inflitta e il desiderio di rimanere solo. Il suo cammino di formazione è fondamentale per comprendere che in ogni situazione è sempre tempo di vivere, che non bisogna rinchiudersi troppo in sé stessi, non arrendersi mai, ma è un cammino che non lo porta a conquistare nessuna felicità. Perché non è un mondo felice quello che abitiamo: se non bisogna abbandonarsi alle utopie che dividono con l’accetta il bene e il male, allo stesso tempo non dobbiamo arrenderci alla distopia che viviamo. Guardate il viso del ragazzo alla fine della pellicola. Di nuovo assente, spaesato. In quello sguardo perso mi ritrovo totalmente.

In effetti Mahito non è solo la figura auto-biografica di Miyazaki ma è suo nipote, sono io, siamo noi. Miyazaki è soprattutto il vecchio prozio che con i suoi 13 film – le 13 pietre in Il ragazzo e l’airone – ha provato a darci una visione diversa di come poter abitare un mondo devastato. «Chi apprenderà il mio sapere, perirà», si legge all’ingresso del mondo dei morti: il regista giapponese non ci invita a seguire le sue orme, ma a trovare la nostra strada per uscire dalle tenebre. Non è l’ammissione di un fallimento il suo – Miyazaki non ragiona in termini di bene/male, successo/insuccesso – ma la consapevolezza che, nonostante il tentativo di cambiare il mondo con la propria arte, dopo 83 anni il mondo è ancora più fragile, tremendo, devastato. Eppure bisogna vivere.

Come trovare, insieme, la nostra strada? E non solo la propria, individuale, strada. Da soli non si cambia niente: Il ragazzo e l’airone è un film corale, in cui Miyazaki per la prima volta ha chiamato a lavorare con sé tutti i più importanti studios d’animazione giapponesi. Il film finisce senza la scritta “fine”, continua fuori dalla sala: “E voi, come vivrete?”

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