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Non sarà una risata che li seppellirà

Un documento politico sulle ragioni dell’opposizione al DDL sicurezza

La legislazione di sicurezza non è solo un insieme di atti normativi, ma un processo che affonda le proprie radici nelle trasformazioni globali che attualmente investono gli ordinamenti nazionali e internazionali. La legislazione di sicurezza non è la “semplice” deriva di un governo che vuole fare paura, ma è la condizione stessa del governare in questa fase del capitalismo.

Il DDL sicurezza è una cosa maledettamente seria. Lo è non solo perchè introduce nuovi reati e aumenti di pena con una finalizzazione inequivocabilmente politica. Ma anche perchè l’ennesimo DDL sicurezza con cui dobbiamo fare i conti non è una contingenza, una “semplice” deriva da far rientrare nei ranghi: si tratta di un sistema articolato di norme che si inserisce organicamente all’interno di un processo globale di ridefinizione degli ordinamenti giuridici, di migrazione degli assetti normativi verso strutturazioni giuridico-istituzionali che implementano i nuovi ruoli e le nuove funzioni assegnate allo Stato nell’attuale contesto economico, politico e sociale. La legislazione di “sicurezza” non ha natura di contingenza, ma interviene organicamente nella destrutturazione del diritto ereditato dalle precedenti fasi del capitalismo, quel diritto che, in ultima istanza, cristallizza lo stato dei rapporti di forza all’interno della società, della tensione costante tra i contrapposti interessi di classe. La frattura verticale del diritto internazionale e la crisi delle istituzioni internazionali che ne deriva, è espressione della necessità per il capitale e per i suoi diversi agglomerati di interessi di ridefinire gli equilibri generali nel quadro di processi e catene di valorizzazione e sfruttamento profondamente modificati, che impongono priorità nuove rispetto alle precedenti fasi del capitalismo.

All’interno di tale dinamica generale anche il ruolo dello Stato, i suoi asset ideologici, il suo impianto istituzionale e, quindi, il suo ordinamento giuridico devono essere ridefiniti, ricalibrati all’interno di un nuovo rapporto di funzionalità con l’attuale “fisiologia” degli interessi dominanti. Una fisiologia che deve misurarsi con criticità e contraddizioni di ampie proporzioni dettate da una nuova contesa sugli spazi di mercato, sul controllo delle risorse necessarie alle tecnologie digitali e alla loro espansione, sul progressivo esaurimento delle fonti fossili e le correlate transizioni energetiche e produttive, sui cambiamenti climatici e le crisi che essi producono, sui nuovi processi di estrazione del valore sempre più maturi ed avanzati. Le boutade di Elon Musk, al di là del loro contenuto, assumono particolare significanza nel rappresentare in maniera cruda e ruvida la strategia dei colossi capitalistici volta ad occupare direttamente lo spazio pubblico per diventarne riferimento libero da intermediazioni “politiche”. Strategia che certo non è confinata nel versante tycoon e che, anzi, troviamo riprodotta, con ancora maggiore efficacia di teorizzazione e di prospettiva, sul versante “democratico” con il capitalismo “woke” che si intesta le battaglie per i diritti civili e ambientali, accredita i brand e le proprie articolazioni megaimprenditoriali come nuovi corpi intermedi dotati di una rappresentanza di fatto, conquistata nel mercato, e costruisce comfort-zone politiche e ideologiche il cui primo obiettivo è quello di cancellare il tema dello sfruttamento e del conflitto di classe dall’immaginario stesso della critica e da qualsivoglia discorso pubblico.

In un simile quadrante, a cui andrebbero aggiunti tanti profili che non possiamo ripercorrere in questa sede, è inevitabile un processo di riconfigurazione dei ruoli e delle funzioni dello Stato che, nonostante tutto, resta ancora oggi lo strumento più efficace di legiferazione e normazione, di organizzazione e gestione dell’apparato bellico, di raccolta e travaso di enormi risorse pubbliche nelle casse del capitale trasnazionale, di imposizione della norma e di esercizio della repressione. In diverse iniziative che abbiamo organizzato sul tema del DDL sicurezza abbiamo rappresentato questo processo come il passaggio dallo “Stato di Diritto” allo “Stato delle Regole”, dove la “regola” è la norma liberata dalla pretesa soggettiva, l’ordine che trae origine dalle esigenze “oggettive” del sistema economico e dalle necessità di controllo sociale che esso impone. Nello Stato delle Regole ogni ambito della vita sociale e individuale deve essere disciplinato, codificato, istituzionalizzato. Ciò per il semplice fatto che ogni ambito della vita sociale e individuale è anche il luogo primario di valorizzazione del capitale e, per questo, il capitale se ne prende “cura”, estraniandolo da ogni possibile livello di autonomia. Sarebbe un errore pensare che i dispositivi di repressione siano attualmente confinati solo all’interno della legislazione penale: in realtà essi sono diffusi in tutti i campi del diritto, comprendono le norme che disciplinano il codice della strada fino a quelle che impongono impossibili “piani di sicurezza” per organizzare eventi e momenti di aggregazione (tra i quali finiranno per essere annoverati anche i cortei e le manifestazioni).

La legislazione di sicurezza si iscrive totalmente all’interno di tale processo configurandosi non come il prodotto di un dato governo, bensì come il presupposto stesso del governare.

Immaginare che un simile processo, nel quale si radica il DDL sicurezza, possa essere fermato con una sorta di “garantismo neo-frontista” , che sostanzialmente derubrica la problematica della legislazione di sicurezza ad una problematica di compagine governativa, appare del tutto illusorio. Il problema, come sempre, non sono i percorsi larghi ed aperti, ma i contenuti sui quali tali percorsi prendono vita e, in ultimo, la perdono. Accreditare l’idea che i sempre più avanzati e pervasivi dispositivi repressivi siano appannaggio dei governi di destra e dell’Orban di turno, occulta il ruolo determinante svolto su tale versante dai partiti democratici, laburisti, “progressisti”, tantopiù in un Paese come l’Italia, dove il Partito Democratico è stato uno dei principali fautori della legislazione di sicurezza. Non è un caso che anche nell’ambito delle critiche mosse al DDL sicurezza il discorso dominante all’interno del cosiddetto “campo largo” della sinistra istituzionale abbia scelto di retorizzare il tema dell’ingiusta punizione della resistenza passiva e dei giovani pacifici e non-violenti, lasciando nel cono d’ombra della comunicazione politica la problematica di chi sceglie di praticare la resistenza attiva e che per questo rischia pene ventennali. D’altra parte, lo stato di emergenza proclamato dalla sindaca rossoverde di Amsterdam e l’ondata di repressione e di arresti che ne è derivata è di per sé più eloquente di ogni altra considerazione.

Il totale fallimento di ogni ipotesi di alternativa di governo come effettiva capacità di imprimere un’inversione di tendenza rispetto ai processi generali in atto è lì, chiaro e trasparente per chi lo voglia leggere. Il problema, tuttavia, non riguarda solo il ruolo che determinate forze politiche hanno assunto nella legittimazione e proliferazione della legislazione di sicurezza, ma anche l’inequivocabile corresponsabilità politica che esse hanno scelto di assumere nello scenario internazionale di guerra, nella legittimazione di fatto del genocidio del popolo palestinese, nelle politiche economiche e sociali, per le quali sono già lanciate all’inseguimento del nuovo piano Draghi e del suo aumento del 2% delle spese militari, nel traffico e nella proliferazione delle armi, nei legami con i signori del fossile, uno dei quali attuale governatore per il centrosinistra dell’Emilia Romagna. L’introduzione di nuovi dispositivi repressivi e le politiche di guerra che investono la dimensione globale, la chiusura degli spazi di espressione ed il genocidio del popolo palestinese non sono “argomenti” diversi che possono essere separati, ma parti fondamentali e fondanti del medesimo processo. E’ davvero sorprendente come a tali responsabilità politiche, gravissime e di portata epocale per il peso che esse assumono nei cambiamenti in atto, corrisponda la sostanziale assenza di riflessi, la scientifica mancanza di ripercussioni nel discorso politico, più precisamente in quell’area del discorso politico “di sinistra” dove si implementano le relazioni con il campo istituzionale e con il partito democratico. Non ci stiamo riferendo ai facili proclami sulle vicende specifiche affidati a qualche post o a qualche comunicato stampa, ma al “discorso politico” nella sua dimensione complessiva, all’insieme delle strategie, delle relazioni attraverso cui esse si dipanano e delle analisi da cui esse traggono origine.

Guardando alle nostre spalle, alla storia dei movimenti e del pensiero critico, anche di diversa estrazione ideologica e politica, troviamo molteplici esempi di eventi “topici”, cioè di eventi storici che, per il loro dimensionamento e le loro implicazioni, sono stati in grado di produrre una “krisis” nell’analisi, nella lettura della fase storica, nelle ipotesi sino a quel momento perseguite. Anche quando tali eventi, per le condizioni date, non si sono immediatamente tradotti in un allargamento del conflitto sociale e nelle rivolte di piazza, hanno tuttavia costituito il fondamento materiale per l’apertura di un dibattito critico, i cui frutti avrebbero segnato gli anni a venire. Gli eventi di portata storica che stanno segnando il nostro tempo rimangono, invece, a tal punto orfani di riflessi nel “discorso politico” che appaiono quasi finzioni di una narrazione malevola. Le gravissime responsabilità delle principali forze politiche della sinistra istituzionale italiana ed europea vengono sistematicamente rimosse quando il tema diventa “il campo largo”, l’imperativo categorico del “governare”, del conquistare il governo del Paese, assunto a valore in sé a prescindere dalle effettive politiche che ne deriveranno. Nell’attuale contesto storico all’interno del quale siamo chiamati ad agire, non è possibile prescindere da un dato di chiarezza assoluta sulle responsabilità politiche e sulla loro condivisione nelle coalizioni che si candidano a governare il Paese o i territori. E questo non per mere posizioni di principio o per questioni etiche (che pure in questo caso avrebbero legittimità di essere), ma per un dato tutto materiale che vede nell’autonomia del discorso politico e dell’agire sociale il presupposto oggi più che mai necessario per lo sviluppo di una conflittualità capace di raggiungere gli obiettivi, di imporre cambiamenti profondi e di costruire nuove prospettive: in una parola, capace di sovvertire il presente ed il futuro.

La battaglia contro il DDL sicurezza non può essere dissociata da una visione complessiva del contesto e delle responsabilità politiche che producono quel passaggio normativo e ordinamentale. Ciò anche perchè se è vero che quel disegno di legge è foriero di una innegabile precipitazione, è altrettanto vero che già oggi, alla stregua degli impianti normativi vigenti, gli spazi di critica, di dissenso e di azione collettiva sono drasticamente compromessi. La lotta contro il DDL sicurezza deve essere l’occasione non solo per contrastare i nuovi impianti normativi in costruzione, ma anche per mettere in discussione ed aggredire quelli già in essere, di per sé assolutamente efficaci nell’esplicare un’azione repressiva a vasto raggio e nel produrre una diffusa inagibilità politica a danno dei movimenti. Il problema non è “rimpiangere” la garanzie perdute, ma capire come sia possibile aprire un terreno di contesa efficace all’interno dei processi in atto, nel nostro presente, come sia possibile riaffermare dentro le trasformazioni in corso lo spazio di legittimità del diritto di resistenza, inteso nella sua accezione più ampia, come pratica della rottura e del costituente sociale all’interno dell’ordine costituito.

E’ certamente prioritario generalizzare e diffondere l’opposizione al DDL sicurezza ed è importante che tale generalizzazione attraversi ambiti e contesti diversi. E’, però, altrettanto importante che questa battaglia non finisca con l’essere arruolata nella contesa elettorale tra governo e opposizione, diventando, attraverso la narrazione del “cattivismo” del governo di destra come causa di un problema che ha ben altre proporzioni e responsabilità, occasione di legittimazione di politiche in contrasto con i suoi stessi obiettivi. La radicalizzazione dell’opposizione al governo Meloni per quanto ci riguarda è parte integrante ed inscindibile dell’opposizione alle politiche di governo imposte, nel contesto nazionale ed internazionale, dall’attuale fase del capitalismo e pienamente assunte, sia pur con declinazioni diverse, dalle coalizioni della sinistra istituzionale.

Per questo è necessario che pur all’interno del processo di generalizzazione dell’opposizione al DDL sicurezza, ogni parte sviluppi la critica muovendo dai contenuti che riconosce come primari e agendo in primo luogo nel contesto di appartenenza. I parlamentari lo facciano prima di tutto in Parlamento, dove non ci sembra che ci siano stati atti eclatanti che pure sarebbero stati possibili: al contrario nelle votazioni alla Camera le assenze delle opposizioni sono state determinanti nel consentire l’approvazione del DDL. I sindacati confederali lo facciano utilizzando il principale strumento di intervento di cui dispongono, ma finora non ci sembra che la Cgil abbia indetto uno sciopero politico contro l’approvazione del DDL. Chi opera nel mondo della comunicazione lo faccia utilizzando gli spazi in cui è chiamato ad intervenire nello svolgimento della propria attività. Riguardo a magistrati e poliziotti non abbiamo nulla da dire perchè non appartengono al nostro ordine del discorso. Neppure ci appassiona il tema dello scontro governo-magistratura “scritto” in modo tale da accreditare i giudici e persino le procure come baluardi dei diritti civili e costituzionali. In realtà in questi anni giudici e pubblici ministeri hanno svolto un ruolo determinante nell’incremento dei dispositivi repressivi, attraverso l’elaborazione di teoremi accusatori volti a criminalizzare l’opposizione sociale e la riesumazione per via giurisprudenziale di reati, come devastazione e saccheggio, grazie ai quali sono stati comminati decenni di carcere.

A nostro avviso una dinamica realmente aperta non è il prodotto di una distorta narrazione unica che obliterando differenze e responsabilità crei una sorta di comfort-zone politica come base di aggregazione.

In questi mesi l’opposizione al DDL è cresciuta e si è alimentata di una miriade di iniziative che hanno attraversato i territori e che sono l’espressione di una sempre più estesa consapevolezza della posta in gioco. Si tratta di un accumulo importante che non dobbiamo disperdere e che, anzi, dobbiamo rilanciare per creare le condizioni di un ulteriore salto di qualità. Per questo pensiamo che laddove si producano sbocchi reali in cui tale tensione ha la possibilità di esprimersi, sia necessario esserci e agire i contenuti che riteniamo fondanti e fondamentali. Quegli stessi contenuti che, a prescindere da ogni sovrascrittura narrativa, interpretano quel “sentire” diffuso all’interno del quale l’opposizione sociale può svilupparsi e trovare le proprie forme di organizzazione.

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