Guerre e porti. La parola a chi lotta
Intervista – Verso la manifestazione del 25 febbraio il collettivo autonomo lavoratori portuali di Genova si racconta.
Che cos’è il Calp? Quando e perché nasce?
Il Calp, collettivo autonomo lavoratori portuali, nasce nell’ottobre 2011 dopo le importanti manifestazioni di quel periodo. In quel momento si è posto un preciso problema sindacale, ma più in generale politico. All’epoca eravamo tutti iscritti alla Cgil e il problema che ponemmo era quello di avere un dialogo e delle relazioni maggiormente strutturate con altre realtà di lavoratori, nonostante molti di noi erano delegati sindacali, rappresentanti di Rsa e di Rsu.
Il problema principale era legato alla struttura piramidale e burocratica della Cgil che impediva, di fatto, gli attivi dei delegati, o comunque li rimandava a tempi molto lunghi, anche per problematiche che dovevano essere affrontate rapidamente.
In quel periodo, comunque, rimaniamo ancora nell’ambito Cgil, ma con la creazione del Calp riusciamo ad uscire dalla logica meramente concertativa del sindacato e a portare avanti diverse lotte all’interno del porto di Genova.
Quando e come avete iniziato il monitoraggio al porto di Genova delle navi con carichi di armi o comunque di tecnologia e logistica bellica in generale?
Il primo approccio con quella che era la problematica della armi in porto lo abbiamo avuto nel 2014. In particolare c’è stato un episodio che ha attirato la nostra attenzione. Dovevamo caricare un centinaio di pick up bianchi su un traghetto che era diretto prima a Barcellona e poi a Tangeri. Quello che ci ha “incuriosito” e poi insospettito è stato l’alto numero di mezzi, tutti uguali, stoccati per diverse settimane al porto. Abbiamo ragionato su questa anomalia, però, non le abbiamo dato un peso enorme lì per lì.
Successivamente, invece, a distanza di tre mesi ci sono stati due fatti importanti. Il primo è stato un comunicato stampa dell’Autorità Portuale di Genova in cui “denunciava” il fatto che la compagnia saudita Bahri entrava in porto con un carico d’armi che non era stato segnalato all’autorità competenti. Il problema, a loro modo di vedere, era la mancanza della segnalazione, non il transito d’armi.
Il secondo fatto è un articolo di un giornalista che denuncia che di ritorno dalle zone di guerra in Libia parte degli stessi pick up di cui parlavamo sopra, tornavano al porto di Genova per problemi tecnici al motore.
Dopo diversi mesi ancora, la prova definitiva del passaggio di materiale ad uso bellico dal porto, la troviamo in un video su you tube di combattimenti in Libia in cui si vedono quei pick up in cui sono montate delle mitragliatrici. Li riconosciamo come gli stessi passati dal porto perché sul parabrezza avevano ancora l’adesivo che noi stessi gli avevamo attaccato per indirizzare i mezzi sui vari traghetti.
Da questo momento abbiamo iniziato una campagna di monitoraggio e denuncia del transito d’armi nel porto, fino ad arrivare al 2019.
Il 2019, anno in cui c’è stato il primo vero blocco di una nave carica di armi. E’ così?
Sì. Grazie ai portuali di Le Havre, veniamo a sapere che la compagnia saudita Bahri avrebbe fatto scalo a Genova con armamenti diretti in Yemen, in piena guerra civile. Tra le altre cose, l’Arabia Saudita, attore protagonista in quella guerra, era stata inserita nella “black list” dei paesi che non rispettano le convenzioni internazionali nei conflitti.
Che cosa decidete di fare?
La prima cosa che facciamo sono una serie di assemblee pubbliche in cui diciamo chiaramente che se la nave arriverà in porto noi avremmo dichiarato sciopero e bloccato il bastimento.
Nelle settimane successive, i tempi di navigazione e di attracco di queste navi sono molto lunghi, scopriamo che in porto sono presenti, pronti per essere caricati, generatori di corrente di un’azienda laziale chiamata Teknel, specializzata in generatori per alimentare droni da combattimento e artiglieria da campo. Questi generatori erano fatti passare come merce ad uso civile, che ha un prezzo di circa cinque volte minore della merce ad uso militare. Tutto questo, da un lato giuridico e politico, violava apertamente la Costituzione e la Legge 185 del 1990,” e da un altro lato, economico e commerciale, truffava le parti capitalistiche in causa nel commercio marittimo. Questi sono problemi loro però.
Denunciamo questa situazione all’Autorità Portuale che se in un primo momento porta avanti controlli e verifiche in modo autonomo, che concordano con le nostre denunce, allo stesso tempo non nega l’ingresso in porto alla compagnia Bahri.
A questo punto, con l’ingresso in porto della nave, che succede?
Quel giorno organizziamo, insieme a realtà sociali e politiche, pacifiste ed anti-militariste, una mobilitazione fuori dalla banchina d’accesso, ovvero dentro al porto, ma subito prima dello sbocco a mare. Noi, come lavoratori, rifiutiamo di caricare la merce bellica sulla nave. Dopo un po’ di bulesume, casino in dialetto genovese, otteniamo che la merce non venga caricata. Nelle settimane successive la compagnia Bahri comunica il rifiuto dell’imbarco di quella merce per problematiche politiche al porto di Genova che rallentano le operazioni portuali. Di fatto noi otteniamo che i portuali non avrebbero più caricato armamenti diretti in teatri di guerra “sporchi”. Avevamo vinto.
Dal 2019 in poi come prosegue la lotta ai carichi di armi in porto?
Cambiamo piano, nel senso che oltre ad altri blocchi che abbiamo fatto negli anni successivi, iniziamo un lavoro più articolato, dove denunciamo, politicamente e pubblicamente, che le autorità competenti non rispettano nessuna norma in materia di compravendita, distribuzione, spostamento e transito di armamenti e materiale bellico. Le risposte dell’Autorità Portuale e della Prefettura sono state tanto evasive quanto ridicole. La prima, lo sbirro del porto, sostiene che non le compete l’applicazione della legge sulle merci, la seconda sostiene che non essendoci un’ operazione doganale tra nave e banchina la responsabilità non è loro. L’assurdità di queste risposte è sotto gli occhi di tutti. Basta pensare alle barche con i migranti che arrivano nei porti italiani. Nel caso delle armi, però, gli interessi economici e politici sono talmente forti che nessuno si prende la responsabilità di controllare.
25 febbraio 2023. Perché il lancio di questa manifestazione?
Il lancio di questa manifestazione è legato, prima di tutto, alla questione della guerra in Ucraina. Noi non facciamo un ragionamento campista ovviamente, ma cerchiamo di fare un discorso più complesso e complessivo che parta dalle ricadute sociali e politiche della guerra sul nostro paese, dal punto di vista, prima di tutto, dei soggetti sociali di classe. Vogliamo ribadire, prima di tutto, come le scelte in materia economica dei vari governi, da Draghi a Meloni, sono totalmente subordinate all’interesse bellico della Nato. Negli anni non c’è stata nessuna politica di redistribuzione della ricchezza, aumento dei salari, tutela e espansione del welfare perché, ci dicevano, non ci sono i soldi. Per la guerra, il riarmo e l’industria bellica i soldi, invece, ci sono e ce ne sono tanti.
A noi sembra, inoltre, che sia in atto un pericoloso innalzamento del conflitto. La discussione nel governo italiano se spostare i sistemi missilistici anti aerei in zona ucraina è un segnale molto preoccupante. Allo stesso modo le scelte del governo tedesco di spostare i carri armati Leopard dalla Polonia all’Ucraina.
Quali sono gli obiettivi di questa manifestazione?
Vogliamo tentare di ricreare un movimento contro la guerra,che ovviamente non sia incentrato su Genova, ma pensiamo che oggi questa città sia simbolica da questo punto di vista, che sia in grado di essere incisivo rispetto alle scelte scellerate dei governi e della classe politica in tema di guerra. Vogliamo anche dare una risposta al fatto che il porto di Genova non può rimanere in questa zona grigia dove si continua a commerciare a trasportare armi come se fosse un posto estraneo alla città. Vogliamo fare una mobilitazione dentro al porto perché si sappia cosa succede là dentro.
Vogliamo che il 25 febbraio sia la partenza di un percorso.