Dalla provincia remota, per volgere lo sguardo verso il cielo

Nel breve testo di presentazione di ‘Storie del tempo e dello spazio’, il ciclo di appuntamenti dislocati promosso dal Csa Sisma in occasione del venticinquesimo anno della sua storia, sono presenti degli estratti di un contributo più ampio, che qui pubblichiamo.

Correva il settembre 2004 e distraendosi a tarda notte nella sala antistante al bancone del bar del centro sociale, poteva capitare di imbattersi su fogli un pò spiegazzati, e fra chiazze color vermiglio si poteva leggere delle città di Diaspar e Lys: la prima, oppressa dal comando delle macchine ma dove si gode di vita eterna; la seconda, lontano dalle mura della precedente, dove si decide insieme ma si muore. Sono le protagoniste de ‘Le città e le stelle’ di Arthur Clarke, che utilizzammo, rovesciandone il finale, per evocare un orizzonte conflittuale.

“L’idea di una città che si organizza in comunità e che sceglie consapevolmente di rinunciare all’immortalità pur di mantenere la propria dimensione umana, ci sembra carica di significati simbolici.” Può sembrare una provocazione indigesta, riportare quanto si scrisse attorno all’immortalità quando oggi è con la sopravvivenza che ci troviamo a che fare, con la prospettiva di penuria reale che si allunga dall’ombra della sua omologa versione ‘artificiale’, la penuria artefatta del capitalismo. Il capitalismo della promessa di un’abbondanza senza fine, consumata sulle macerie del muro di Berlino, dopo trent’anni non ci lascia fra le mani che scarsità, e pretende anche di convincerci che la colpa è solo nostra. L’oppressione del lavoro non basta più, ci portano via il tempo, ci sottraggono lo spazio della nostra residua libertà.

Chi mai avrebbe pensato, nel lontano 2004, che quei processi ricombinanti che sottendono alla progressiva affermazione del realismo capitalista subissero una tale accelerazione temporale. Che conducessero all’implosione deflagrante di ogni spazio di mediazione, al collasso verticale del sistema liberal-democratico dello stato di diritto.

D’altronde chi avrebbe mai immaginato di finire col condividere una simultanea esperienza di confinamento, controllo e disciplinamento di massa insieme agli altri miliardi di persone che popolano il pianeta. O che un conflitto in Est Europa scatenato dallo spezzarsi degli equilibri globali di spartizione del dominio portasse all’imposizione di uno stato di guerra, irrigimentando in via definitiva lo spazio del discorso pubblico, trasformando il dissenso in ‘tradimento civile’. A rammentarci come, in fondo, la guerra è sempre rimasta lì, dentro e fuori di noi. In fondo, “repressione è civiltà”.

Eppure avevamo lucidamente riconosciuto i traccianti delle linee di tendenza di quei processi, ma forse non avevamo fatto i conti fino in fondo con noi stessi, non avvertendo in anticipo come il tempo corrode anche il metallo nativo di un pianeta incontaminato.

“L’assunzione consapevole del limite delle nostre esperienze e del nostro agire ha implicazioni profonde, condiziona il nostro modo di essere e di pensare.” Crediamo che segmenti di quel testo lontano possano ancora conservare efficacia nonostante la diacronia temporale.

All’epoca conoscevamo le radici, abbiamo poi tentato di risalire i flussi della linfa nel coacervo dei tronchi dell’arbusto e volgendo lo sguardo verso l’alto, infine, ci siamo lasciati sovrastare dall’albero del tempo, imponente come una quercia secolare e cresciuto alla velocità di una magnolia stellata, accecati da un sole spento. Il sole spento di un presente distopico al cospetto del quale ci pare di non poter offrire null’altro che la nostra arida impotenza. Ma abbiamo bisogno di sottrarci dalla luce accecante, rovesciare il punto di osservazione, rifiutare l’estraniazione che alla mente mostra il nostro corpo come fossimo ostaggio di un tempo sospeso, bloccati dentro una vecchia fotografia in bianco e nero: siamo anche noi dentro quel flusso del tempo ed è necessario risalire la corrente, riconoscersi come vena di energia trasformatrice, seppur prosciugata, seppur da rigenerare.

In tempi di fratture e nuovo disordine globale, di caduta dell’Occidente e di confini incerti a segnare la timeline del capitale internazionale; di stati di emergenza che si riproducono in loop fino a far esondare l’eccezione; di produzione di soggettività nociva dalla parte sbagliata del meridiano della lotta di classe; di quiet quitting e great resignation fra gli anelli infranti della catena di distribuzione delle merci; di una nuova austeritá che ci attende come risultante scaricata sul singolo delle dinamiche di deterioramento del clima e di speculazioni finanziarie sull’energia, abbiamo assoluto bisogno di riannodare le fila della storia, delle storie, della nostra parte di mondo, quella rivoluzionaria. E immaginarne un tracciato futuro.

Ma per farlo abbiamo necessità di riguadagnare il terreno perduto, recuperare lo spazio che ci è stato sottratto, ridisegnandone il perimetro, spingendo le barriere che lo costringono un pò più in là. Per fare questo non abbiamo altra opportunità se non quella di muovere ancora da quella porzione marginale di spazio che ancora difendiamo, che teniamo al riparo dall’artiglio predatorio del profitto e del controllo. E allora abbiamo pensato che non potessimo che ripartire da qui, dai remoti avamposti di autodeterminazione che ancora presidiamo.

Sarà decisivo orientare lo sguardo collettivo nella giusta direzione, con entrambi i piedi ben piantati nel terreno dissestato di una realtà mutante e ostile. Ma rivolgendo lo sguardo in alto, verso il cielo, come per istinto, come facciamo fin dall’origine delle donne e degli uomini, per cercare le risposte nella ricerca di un avvenire che sia degno del valore di una meta collettiva.

Un orizzonte che è un orizzonte conflittuale, come scrivevamo, perchè “senza il conflitto non ci sono né la Città né le Stelle, ma solo Diaspar. Una Diaspar ben peggiore di quella descritta da Clarke nel suo romanzo, perchè la Diaspar che ci stanno costruendo addosso ci vuole obbedienti ma poveri e ci vuole schiavi senza neanche offrirci l’immortalità.”

E magari, a guardar bene, guarendo dalla nostra cecità artificiale, ci accorgeremo che non esiste un solo sole e torneremo a distinguere e a farci guidare dal chiarore delle stelle nelle tenebre, dai raggi del sole vivo di un domani che sappia attendere bisogni e desideri di uguaglianza e libertà.

Csa Sisma

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