Nessuna giustizia, nessuna pace. Dalla parte della Palestina che resiste

Un contributo dei Centri Sociali delle Marche

Cosa sta accadendo in questi giorni in Palestina? Sembra una domanda banale e scontata ma ascoltando la tv, aprendo un qualunque giornale, scorrendo una qualsiasi timeline social, appare evidente come la domanda sia del tutto legittima.

Allora proviamo a dare una risposta: è in atto una sistematica e brutale cancellazione di 75 anni di storia di quel territorio da parte dello stato di Israele, sostenuto dalle potenze occidentali. Storia che possiamo intendere come un susseguirsi di alterne vicende ma nella realtà è storia vissuta di una intera popolazione che soffre sulla propria pelle, da generazioni, uno stato di oppressione totale.

Questa sistematica e brutale cancellazione si muove appunto su due piani: da un lato i governi e i mezzi di informazione in Occidente sono scesi immediatamente in trincea con la loro narrazione distorta volta a creare la solita falsa alternativa: “Sei con i morti israeliani o con i terroristi assassini?”, come se la guerra fosse iniziata il 7 ottobre; dall’altro la cancellazione materiale che passa per i bombardamenti a tappeto, il blocco degli aiuti, la chiusura dei valichi, le aggressioni da parte dei coloni.

Tutto questo non ha avuto inizio qualche giorno fa ma va avanti da 75 anni, a prescindere da quale partito o movimento abbia avuto la leadership in Palestina. Ora la narrazione viene tutta appiattita su Hamas, ma forse nei decenni passati l’occupazione era più tollerabile? Le bombe erano più umanitarie? I civili uccisi erano più… civili?

Quanto sta accadendo in queste ore supera ogni soglia di tolleranza, la denuncia di crimini di guerra e contro l’umanità, di violazioni del diritto internazionale, risulta del tutto insufficiente alla luce di attacchi deliberati e indiscriminati dell’esercito israeliano su centinaia di innocenti che cercano rifugio. Di fronte a una tale portata di atrocità, non possiamo permetterci di essere corresponsabili nel relegare la popolazione palestinese al ruolo di vittima predestinata, perché questo porta ad ignorare lo stato di apartheid quotidiano in cui ogni singola persona vive in quel territorio.

Questo contribuisce alla rappresentazione di uno spazio liscio, senza storia dove è compito facile puntare il dito per giustificare ogni devastante rappresaglia tutte le volte che da quel lembo di terra si muove un qualsivoglia gesto di resistenza. Schiacciare il discorso pubblico, costringere chiunque condanni le mostruosità del governo israeliano ad essere automaticamente tacciato di fiancheggiare il terrorismo, è una strategia consapevole volta a ridurre al silenzio chi voglia opporsi a questo ordine delle cose. Una strategia da smascherare, un macabro gioco di parole che va rotto.

Abbiamo già avuto modo di sperimentare durante la guerra in Ucraina come la disinformazione e la propaganda di guerra abbiano una funzione centrale nell’appiattire la rappresentazione: da una parte noi, dall’altra il nemico. Viviamo tempi dove la ‘verità di parte’ spazza via ogni dato fattuale, anche oltre i limiti del ridicolo, come accaduto attorno alle responsabilità della strage all’ospedale Al Ahli di Gaza. Ora, senz’altro un’opera di corretta ricostruzione e confutazione può essere lodevole, in parte utile, ma non può non essere più di un’arma spuntata in un contesto dove lo stesso fact checking è diventato parte integrante della distorsione.

Per questo, nella piena coscienza della realtà dei fatti, abbiamo la responsabilità di non cedere ai ricatti imposti dall’ordine del discorso e di difendere le nostre prese di posizione, anche se queste ultime sfidano i dogmi morali del doppio standard occidentale.

La nostra posizione oggi riafferma il diritto dell’oppresso di resistere all’oppressore, il diritto del popolo palestinese di combattere l’occupazione militare israeliana, senza alcuna pretesa di indicare in quale forma questa resistenza debba essere esercitata dopo 75 anni di oppressione.

All’apparenza l’unica voce che sembra levarsi fuori dal coro è quella di chi invoca la pace. Tutti in punto di principio siamo per la pace, chi non lo è? Ma questi tempi difficili rendono anche questa presa di posizione – del tutto spontanea e comprensibile – riduttiva e parziale, fuori fuoco. Perché molto spesso quella che noi, nelle nostre sicure case d’Occidente, chiamiamo pace, per un palestinese significa sopruso quotidiano se non morte violenta. 

Per questa ragione “nessuna giustizia, nessuna pace” non porta con sé solo il suo ‘storico’ significato, non è soltanto un’esortazione, in Palestina questo è un grido collettivo che nasce ed è al contempo una ‘rappresentazione di fatto’ di 75 anni di storia. Un grido collettivo che dobbiamo far nostro, provando a dare forma concreta alla nostra solidarietà, per rompere l’assedio e per restare al fianco di chi, a Gaza come altrove, cerca di resistere alla disumanizzazione e all’annientamento di un intero popolo.

Centri Sociali delle Marche 

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