Lo avremmo chiamato stato di polizia

Una disamina ragionata dello schema di disegno di legge in materia di sicurezza approvato dal Consiglio dei Ministri il 16 novembre 2023 . Testo a cura di Paolo Cognini, avvocato penalista

Introduzione

Non c’è dubbio: un tempo lo avremmo proprio chiamato Stato di polizia. Certo, è un’espressione che oggi in prima battuta ci suscita immagini in bianco e nero, che ci rimanda con il pensiero ad altri periodi e contesti storici. E’ un’espressione che per tutto questo tendiamo a percepire come datata. Ma d’altra parte è pure quell’espressione, quel paradigma che ci restituisce con chiarezza, sinteticità e autenticità le reali trasformazioni del nostro ordinamento giuridico, quelle che ci suscitano qualche commento “Oh, ma hai visto l’ultimo pacchetto sicurezza?” ma che restano sistematicamente senza una risposta adeguata, anche solo nello spazio dell’analisi e del dibattito.

Stato di polizia non è un’espressione troppo grande per descrivere il processo di trasformazione dell’ordinamento giuridico: è, invece, un’espressione tanto grande rispetto alla capacità storica di assumerne le conseguenze, le implicazioni, le responsabilità e le complicità. Spesso si afferma che il grado di civiltà giuridica di un ordinamento si misura sulla base dei diritti civili riconosciuti. In realtà, nell’epoca in cui stiamo vivendo, si tratta di un’affermazione che perde sempre di più significato. Negli ordinamenti occidentali il riconoscimento su ‘carta’ della sfera dei diritti civili e la retorica ideologica che accompagna le mere enunciazioni di principio è oramai una pratica pienamente assunta dal potere e spesso utilizzata per mascherare la parabola reale dell’ordinamento giuridico e la sua profonda ristrutturazione in termini repressivi, giudiziari, polizieschi e carcerari.

Se volessimo davvero individuare degli indicatori del grado di civiltà giuridica di un paese nell’attuale contesto storico dovremmo principalmente focalizzare l’attenzione sulle trasformazioni dell’ordinamento penale e sul progressivo sviluppo dei dispositivi para-penali, ovvero dei dispositivi che, seppur di natura tecnicamente non penalistica, attuano dinamiche di controllo e di repressione che sono in rapporto di diretta funzionalità e complementarietà con l’ordinamento penale.

Per quanto riguarda il nostro paese il processo di trasformazione dell’ordinamento giuridico in termini di totalitarismo giudiziario e poliziesco è estremamente avanzato e veloce. Ad ogni fatto di cronaca utile ad implementare tale processo corrispondono sistematicamente modifiche normative che incrementano le pene, introducono nuove ipotesi di reato e riducono verticalmente in nome della sicurezza le garanzie, gli spazi di espressione e quelli di autonomia sociale.

Si tratta di un processo a cui hanno collaborato fattivamente tanto le forze politiche della sinistra istituzionale quanto le forze politiche della destra. Sotto questo profilo va sottolineato come il giustizialismo del Movimento 5 stelle e del PD abbiano costituito un volano fondamentale nel ‘ripensamento’ repressivo dell’ordinamento giuridico: per quanto riguarda i dispositivi para-penali non dimentichiamo che il daspo urbano è stato introdotto dal ministro Minniti, responsabile anche della complessiva riforma della protezione internazionale in termini restrittivi e di riduzione della garanzie fondamentali.

In questo contesto il tema dei diritti civili, ed in particolare quello della loro presunta protezione, diventa sistematicamente il dispositivo più agevole attraverso cui il processo di trasformazione dell’ordinamento giuridico viene di volta in volta implementato. La principale ‘vittimizzazione secondaria’ di chi subisce violenza avviene proprio su questo terreno: l’utilizzo strumentale della vittima, del corpo della vittima e delle relazioni affettive all’interno delle quali la vittima è inserita, per dare ulteriore impulso al processo di trasformazione in termini totalitari dell’ordinamento giuridico. Ciò senza che i nuovi ‘strumenti giuridici’ di volta in volta presentati come determinanti nella protezione della potenziale vittima incidano realmente su tale versante.

Il paradigma che pone la sicurezza come categoria prevalente e prioritaria rispetto a quella della libertà e dell’autonomia è oramai consolidato con la complicità di chi lo sostiene apertamente e di chi ipocritamente non ne parla partecipando tuttavia attivamente a quel ‘discorso generale’ che lo produce. L’ultimo pacchetto-sicurezza approvato dal Consiglio dei Ministri segna un altro passaggio fondamentale nella complessiva ridefinizione dell’ordinamento giuridico. La dinamica di innalzamento delle pene, le nuove ipotesi di reato e le altre modifiche che a breve vedremo, al di là delle implicazioni dirette che esse producono, sono sintomatici di una cultura giuridica che cancella alla radice alcuni paradigmi fondamentali del pensiero giuridico moderno, come quello, ad esempio, della presunzione di innocenza o quello della proporzionalità della pena in rapporto all’effettiva offensività della condotta assunta come delittuosa.

Si riafferma, invece, l’idea rozza e primitiva che tanto più la pena è sproporzionata e tantopiù riesce ad essere dissuasiva: per intenderci, lo stesso ‘pensiero giuridico’ con cui in altre epoche si giustificava l’impiccagione di un bracconiere. Ma lo schema di ddl approvato dal Consiglio dei Ministri colpisce anche per la sua chiara finalità di repressione politica, per l’intento platealmente evidente di colpire le possibili forme di opposizione sociale e le sue potenziali articolazioni organizzative. Nella disamina che segue cercheremo di focalizzare l’analisi sulle modifiche normative contenute nello schema di ddl approvato, con l’obiettivo di offrirne una sintesi che, nonostante i profili tecnici, consenta di avere una visione corretta della reale portata del ddl e di andare oltre le approssimazioni da ‘social’, spesso e volentieri ‘disinformative’. Ovviamente in questa sede non è possibile effettuare una disamina dettagliata dell’intero disegno di legge, ma i punti che vengono di seguito riportati sono quelli fondamentali, che definiscono lo spessore del provvedimento e la sua effettiva incidenza nelle pratiche e nel vissuto sia dei singoli che delle realtà organizzate.

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Indice

Fino a 7 anni di carcere per l’occupazione della casa

Il daspo urbano ingrassa a dismisura

Blocco stradale “con il proprio corpo”: da 6 mesi a 2 anni di carcere se attuato da più persone riunite

– In carcere nonostante lo stato di gravidanza – bambini di eta’ inferiore ai 3 anni detenuti con le loro madri

– Repressione del cosiddetto “accattonaggio”: un viaggio nel tempo che ci riporta all’epoca delle workhouse

Gli intoccabili: la sacralizzazione dei corpi di polizia e dei corpi dei poliziotti.

1 – L’aumento delle pene per i reati di resistenza, violenza o minaccia a pubblico ufficiale agente di polizia

2 – La nuova aggravante di lesioni al pubblico ufficiale agente di polizia

– Rambizzati gli agenti di pubblica sicurezza: potranno portare armi senza licenza

– Imbrattamento: pene triplicate a tutela dell’onore, del prestigio e del decoro delle istituzioni

– La priorità nelle carceri italiane: reprimere le rivolte ed estendere i reati ostativi alla concessione delle misure alternative

– Reato di rivolta anche per le proteste nei cpr e nei centri di accoglienza

– Continua la guerra alle imbarcazioni di soccorso in mare

– Detenzione di materiale con finalità di terrorismo e divulgazione delle istruzioni per l’utilizzo di materie esplodenti

Eventi in programma