Eterotopie, Lavorare stanca 4.0 è il sesto festival della Libreria Indipendente Sabot

Nella scorsa edizione del festival Eterotopie ci siamo immersi nella letteratura fantascientifica, pensata come strumento in grado di rielaborare questo presente sempre più monodimensionale e di dar vita a possibili futuri alternativi verso cui dirigere lo sguardo.

Quest’anno abbiamo invece deciso di indagare la contemporaneità attraverso una delle sue dimensioni più materiali: quella del lavoro; un elemento su cui riteniamo sia necessario riflettere, o meglio, tornare a riflettere.

Quello del lavoro è un tema complesso, articolato, oggi ancor più difficile da decifrare nella sua interezza. Nella società moderna infatti, come puntualmente analizzato da Marx, emergeva netta la divisione tra chi possedeva i mezzi di produzione e chi non aveva altra scelta che la vendita del proprio lavoro, tra l’oppressore e l’oppresso quindi. Oggi invece queste nette dicotomie appaiono rarefatte, più difficili da ritrovare. Da un lato, l’oppressore spesso non ha un volto o una definizione precisi, mascherato dietro algoritmi apientemente utilizzati da chi ne detiene il controllo; dall’altra, l’oppresso si trova sempre più isolato, smarrito tra le difficoltà individuali e incapace di riconoscersi in quella coscienza di classe che sola permette l’emancipazione. Di conseguenza lo scontro di classe, un tempo tra borghesia e proletariato, risulta oggi offuscato, frammentato in tante piccole conflittualità, spesso ridotte a questioni individuali e non sistemiche.

Come la società, anche il lavoro risulta profondamente trasformato rispetto al periodo storico in cui Marx scriveva, ma non lo sono affatto i suoi processi di sfruttamento, di alienazione e di impoverimento generalizzato delle nostre vite. Oggi come allora lavorare stanca – come scriveva Pavese –, specialmente nella sua nuova dimensione 4.0, che rende il lavoro una componente sempre più totalizzante delle nostre vite, ponendo sotto costante ricatto la nostra stessa sopravvivenza.

Cosa possono allora l’analisi e la letteratura di fronte a tutto questo?

Sicuramente possono aiutare a diradare la nebbia, mostrando la realtà per com’è e contribuendo alla costruzione di un immaginario di classe ad oggi perduto. Sappiamo bene che questo non rappresenta in sé la soluzione – solamente l’apertura di spazio di conflitto può infatti mettere in discussione il sistema di sfruttamento capitalistico – ma lo riteniamo però un momento fondamentale per la riattivazione di processi di riconoscimento tra lavoratrici, lavoratori. Solo la realizzazione di essere parte di uno scenario condiviso infatti può permettere di ricollocare la condizione individuale in quella collettiva della classe.

E come creare nuovi immaginari se non attraverso il racconto e la narrazione?

Già a partire dagli anni ‘70 in Italia si è sviluppata una letteratura industriale e operaia, intenzionata a raccontare e a riflettere in prima persona sulla condizione lavorativa. Successivamente questo terreno sembrava essersi inaridito, rendendo sempre più difficile trovare storie in grado di raccontare il lavoro di oggi dal punto di vista di chi per primo ne subisce lo sfruttamento. Oggi invece, se si guarda bene, la letteratura “working class” (della classe lavoratrice e non solo operaia, come suggerirebbe la traduzione italiana) non è morta e anzi in progressiva espansione. Molte case editrici stanno facendo un importantissimo lavoro di diffusione del genere, pensiamo ad Alegre grazie alla quale abbiamo conosciuto le storie di Cartwright, D.Hunter, Cash Carraway, ma anche di scrittrici e scrittori italiane come Prunetti, Baldanzi, Monteventi e molti altri. Se una certa cultura ha sempre tentato di rimuovere la vita di lavoratrici e lavoratori dal discorso letterario e culturale è nostra intenzione rimetterla al centro, per continuare a sentirci scomodi tra le pagine dei libri che leggiamo.

Ma oggi che lavoro c’è da raccontare?

Quella in cui ci troviamo è l’era industriale 4.0, l’era dell’automazione, dell’uso incontrollato della tecnologia per aumentare la messa a valore, la produttività e la sorveglianza del nostro lavoro e delle nostre esistenze. Tutto questo è supportato da una narrazione in cui non emerge alcuna criticità, dove tutto sembra funzionare alla perfezione ed anzi contribuire al progressivo miglioramento della mondo in cui viviamo.

La realtà è però ben diversa: le molteplici conseguenze negative di questo sistema di sfruttamento ricadono sulla maggioranza delle persone, ovviamente aggiungendosi alle altre dimensioni dell’oppressione, moltiplicando i livelli di sfruttamento e rendendo le nostre vite una “totalità lavorativa”. Siamo sfruttati durante il tempo di lavoro standard, ma siamo sfruttati anche nel tempo libero, quando acquistiamo, ci divertiamo o interagiamo sui social. Ogni momento dell’esistenza è per il capitale un momento da poter mettere a valore, come i dati quotidianamente estratti dalle nostre attività che diventano merce, producendo introiti immensi per chi li possiede e li rivende. Tutto questo ci fa essere costantementenon solo consumatrici e consumantori, ma produttrici e produttori incosapevoli e non retribuiti. Le nostre vite vengono stravolte, progressivamente alienate, e non abbiamo adeguati strumenti di resistenza per combattere.

Emblema di questo tempo è il capitalismo delle piattaforme di cui Amazon, pronto ad insediarsi nella nostra comunità con uno dei suoi hub, è una delle punte dell’iceberg. Quello che aprirà nel 2025 sarà l’11° centro di distribuzione dell’azienda in Italia, garantendo sì numerosi posti di lavoro, ma a che condizioni e con quali conseguenze?

Passando in zona Coppetella a Jesi il magazzino è già ben visibile, il nostro sguardo percepisce che il paesaggio è cambiato. Ma molto del cambiamento è ancora invisibile e non sembra essere ancora sufficientemente considerato. Amazon non è qualcosa di nuovo, sappiamo già quale sia il suo modello aziendale, basato sul paradigma dell’ipersorveglianza, sul lavoro atomizzato e automatizzato. Tutti elementi questi con cui il capitalismo invade le nostre città e le nostre vite, sotto la maschera della sicurezza, efficienza e produttività. Una formula questa che non rappresenta niente di nuovo: è ancora il capitalismo che affligge la classe oppressa con ogni mezzo a sua disposizione.

È di questo che vogliamo leggere. Uno, cento, mille libri in grado di raccontare tutto questo, di renderlo immaginario, per pensare vie di fuga, rimboccarci le maniche e trasformarle in spazi di protesta, conflitto e opposizione. Lavorare sì, stanca, e per questo è necessario sovvertire l’espressione, affermando invece che siamo stanchi di questo lavoro, dell’alienazione, dello sfruttamento, della sorveglianza. Tutti elementi che contribuiscono all’impoverimento delle nostre vite e dei nostri portafogli, costringendoci quotidianamente a dover fare i conti con i “padroni” per soddisfare i nostri desideri. E allora il 17, 18 e 19 maggio vogliamo immaginare una realtà e una società senza questo lavoro, senza sfruttamento, senza schiavitù…

“Al mattatoio

Ci crediamo

Però

Un giorno

Alla scomparsa del lavoro

Ma quando cazzo

Ma quando”

(Joseph Ponthus, “Alla linea”)


Il programma della tre giorni:

[Tutti i giorni dalle 17.30: esposizione libri case editrici indipendenti, mostra “La studiosa precaria” di Roz e video-istallazioni]

Venerdì 17 Maggio

– ore 19 presentazione del numero work/lavoro della rivista “The Florence Review” con Diego Bertelli

– ore 21 presentazione del libro “Trucioli” con Matteo Rusconi

*** per tutta la giornata Didac dj-set

Sabato 18 Maggio

– ore 8.30 Trekking a cura della Polisportiva Ackapawa

– ore 19 presentazione del libro “Sono Fame” con Natalia Guerrieri

– ore 21.15 presentazione del libro “Il Magazzino” con Alessandro Delfanti

*** per tutta la giornata Nando the butcher (from Bloody Sound) dj-set

Domenica 19 Maggio

– ore 19 presentazione del libro “Il pozzo vale più del tempo” con Ginevra Lamberti

– ore 21.15 spettacolo teatrale “Come Steve Mcqueen” con Marco Bianchini, introdotto da Alberto Prunetti (in collegamento)

Eventi in programma