Santa Maria Capua Vetere, le proteste, la mattanza, il processo

Una conversazione con Luigi Romano, autore de ‘La settimana santa’

In occasione dell’incontro ‘Potere e violenza nelle carceri italiane. Dal caso Cospito alla Mattanza della settimana Santa’ ospitato negli spazi del Csa Sisma di Macerata, abbiamo intervistato Luigi Romano, avvocato, presidente di Antigone Campania e autore del libro-inchiesta su quanto accadde il 6 aprile 2020 nel Carcere di Santa Maria Capua Vetere.

Il contesto è quello dei primi giorni dell’emergenza pandemica e delle proteste dei detenuti per condizioni di vita degne e tutelate dal contagio, che presto si diffondono all’interno dei penitenziari italiani.

Proteste che verranno soffocate nel sangue, col prezzo più alto pagato a Modena con nove morti, oltre i tre di Rieti e un altro di Bologna. 13 vittime, un bilancio mai verificatosi prima nelle prigioni italiane.

Con Luigi abbiamo ricostruito le vicende di quei giorni, la cronaca della ‘perquisizione straordinaria’ e la triste vicenda di Lamine Hakimi, detenuto di origine algerina, migrante, affetto da disturbi psichiatrici, morto suicida il 4 maggio dopo essere stato sottoposto a dure condizioni di isolamento.

Ma della sua morte, delle violenze e delle brutalità di quella maledetta giornata i responsabili saranno chiamati a rispondere nel processo in corso presso il tribunale della cittadina in provincia di Caserta.

Pubblichiamo di seguito un breve estratto del libro ‘La settimana santa. Potere e violenza nelle carceri italiane’ (Monitor edizioni) da NapoliMonitor.it

Il 5 aprile 2020 il provveditorato invia cento uomini del Gruppo di supporto a Santa Maria. La direzione, coperta da un vice direttore, è in contatto con tutti i vertici ed è stata informata che se l’occupazione della sezione dovesse continuare si dovrà autorizzare l’intervento violento delle forze dell’ordine.

“Si stanno barricando, fate venire il gruppo e qualcuno esterno”.

“Ma stanno distruggendo qualcosa?”.

“No, no. Aspettano il magistrato di sorveglianza”.

La tensione cresce.

“Quindi che faccio? Ti mando gente?”.

Si cerca di capire quali agenti residenti in zona possano intervenire a Santa Maria.

“Pare che solo una sezione sia rimasta fuori, io sono pronto nel caso ci fosse bisogno”.

Anche le organizzazioni sindacali di categoria sono pronte a manifestare il loro sostegno qualora dovesse essere necessario. Dalle chat emerge che quel momento poteva essere propizio per avanzare la richiesta di “chiudere i reparti”, una battaglia storica della polizia penitenziaria, che identifica il problema dell’insubordinazione con il regime aperto delle celle.

Il regime aperto prevede infatti la libertà per il detenuto di muoversi in sezione, un’opportunità in linea con le istanze rieducative della pena che spinge alla progressiva responsabilizzazione della persona. Tuttavia, l’assenza di una reale offerta formativa o lavorativa riguarda la quasi totalità degli istituti, quindi il regime aperto nei reparti dei comuni (sempre molto affollati) perde la funzione individuata dall’ideologia istituzionale e si concretizza in una misura premiale per i più docili.

D’altra parte, per consentire questo tipo di regime il personale di polizia deve vigilare con maggiore attenzione. La sezione diventa allora il terreno di scontro in cui prendono forma le politiche penitenziarie. Un terreno conflittuale in cui il controllo dello spazio o l’acquisizione di maggiori libertà rappresentano la posta in gioco. L’alleggerimento della tensione e del carico di lavoro è il motivo principale che coalizza tutte le organizzazioni della polizia penitenziaria (finanche la Cgil) nel sostenere la chiusura dei reparti. La protesta del 5 aprile era quindi un buon pretesto per avanzare con forza questa richiesta.

“Stanno ancora aperti?”.

“Basta devono stare chiusi. L’ho detto anche al comandante, il Nilo si deve chiudere per la situazione di ieri. Non possono rimanere aperti”.

Nel frattempo sul posto arrivano anche polizia e carabinieri. Ma ormai i detenuti stanno trattando con gli agenti della penitenziaria e visibilmente la protesta comincia a rientrare. Nonostante ci si avvii verso una soluzione, l’immaginario di guerra sembra avere conquistato tutti.

“Ma lui dove sta?”.

“Dove vuoi che stia, lui è sempre in trincea”.

“Come va, siete ancora fuori? Mi raccomando occhi aperti, fate male sempre a loro”.

La fine della protesta distende la maggior parte degli animi. In fondo è stata una buona prova di mediazione e se il mondo fosse finito il 5 aprile, guardando quei momenti dalla prospettiva di chi doveva gestire un problema di ordine pubblico, quel giorno poteva considerarsi un successo, alla stregua di quelli raggiunti il mese prima a Salerno e Napoli, con le rivolte sedate senza morti o particolari spargimenti di sangue. Ma le intenzioni che avrebbero animato l’intervento del giorno successivo si rintracciavano già in buona parte degli agenti in servizio.

“Però il personale è inviperito perché avrebbe voluto un intervento di forza”.

Le guardie penitenziarie erano rimaste scontente e con l’eventuale azione di forza speravano di recuperare un maggiore controllo dei reparti. La giornata si chiude quindi con un riequilibrio parziale, lasciando aperti scenari del tutto imprevedibili. Il collasso di un istituto può infatti avvenire sia per un rafforzamento del potere dei detenuti all’interno delle sezioni, sia per l’insofferenza degli agenti penitenziari. I fatti del giorno successivo dimostreranno che si scelse di privilegiare (e assorbire) quest’ultimo tipo di malcontento per ripristinare dei ritmi di lavoro efficaci in un momento emergenziale.

Qui le informazioni su dove trovare il libro La settimana santa. Potere e violenza nelle carceri italiane’ (Monitor edizioni)

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