Da Svb a Credit Suisse: le politiche monetarie Usa e Ue fra crisi bancaria e bolla delle startup
Intervista ad Andrea Fumagalli, economista, docente di Economia Politica all’Università di Pavia, redattore di Effimera
1. Relazione tra rialzo dei tassi d’interesse delle banche centrali e fallimenti di SVB e Signature. Il fallimento può essere legato solamente alla dimensione particolare di quella banca come servizi erogati e clienti? (fornitore di servizi finanziari alle aziende tecnologiche / cosiddetta “banca delle startup”, salita dei tassi a cui corrisponde la diminuzione dei prezzi dei bond del tesoro) oppure i motivi vanno ricercati nella debolezza/crisi strutturale del settore tecnologico e delle start up? (Favorite negli ultimi anni da bassi tassi d’interessi negli USA ed in Europa).
La crisi di SVB, Signature e First Republic Bank rientra nelle classiche crisi finanziari-creditizie. Negli anni Covid e immediatamente post-Covid, la SVB, in quanto banca regionale (quindi con dimensione inferiore a altri colossi statunitensi), ha raccolto parecchia liquidità sotto forma di depositi grazie alla favorevole congiuntura economica dei suoi clienti californiani (start-up tecnologiche). Ha investito tale liquidità in fondi ma soprattutto in titoli di stato a reddito fisso.
Inoltre, nel periodo della presidenza Trump alcune forme di regolazione sono venute meno. Nel maggio del 2018 Trump, anche su pressione di banche come la stessa Svb, aveva alzato da 50 a 250 miliardi di attivo il tetto per le banche considerate troppo grandi per fallire (too big to fail), tornando indietro rispetto al Dodd Frank Act emanato dopo la grande crisi del 2008. In questo modo la stragrande maggioranza delle banche Usa ha potuto operare senza grandi controlli da parte della Fed e il fallimento della Svb è anche il risultato di questa politica di eccessiva deregulation.
Infatti, quando il vento è cambiato, i costi della logistica e i prezzi hanno cominciato ad aumentare erodendo i lauti margini di profitto precedenti, alcuni clienti di SVB si sono trovati in carenza di liquidità e hanno chiesto la restituzione dei depositi bancari. SVB si è trovata in difficoltà, anche perché, nel frattempo, i titoli a reddito fisso posseduti hanno cominciato a perdere valore in seguito all’aumento dei tassi d’interesse deciso dalla Fed in funzione anti-inflazionistica. Tra valore dei titoli, soprattutto se a reddito fisso, e tassi d’interesse c’è una correlazione inversa. La SVB o vendeva dei titoli svalutati con perdite in conto capitale per avere la liquidità da restituire ai clienti in difficoltà oppure non restituiva i depositi. Quando tale situazione si è risaputa, si è verificata una corsa alla chiusura dei conti di depositi, creando il fallimento della Banca.
L’aumento dei tassi d’interesse è stata quindi una concausa della crisi creditizia Usa ma non la ragione principale. Quando la dinamica creditizia e finanziaria è trainata dall’attività speculativa, come avviene oramai da più di 40 anni, la crisi è sistemica ed endemica e l’instabilità dei mercati è strutturale.
Piuttosto, è interessante notare lo scontro tra due prospettive (con tempistiche diverse). La FED adotta una politica monetaria restrittiva di medio periodo, con l’obiettivo di ridurre l’inflazione (più da costi che da domanda) in un paio d’anni anche a costo di raffreddare l’economia pur di controllare e ridurre l’aumento dei salari e la conflittualità dei lavoratori/trici. L’oligarchia speculativa internazionale, invece, preme per un non ulteriore aumento dei tassi d’interesse per non influenzare negativamente gli indici di borsa. È facile prevedere che la speculazione finanziaria la spunterà, a conferma della dipendenza delle banche centrali (altro che autonomia!) dalle convenzioni speculative dominanti.
2. Più in generale che relazione c’è tra l’industria tecnologica ed il sistema bancario o meglio le forme di finanziamento/indebitamento? Questo settore, molto esposto al rischio e quindi molto poco finanziato dal sistema bancario “tradizionale”, si può reggere solo su finanziamenti erogati attraverso venture capital e quindi certi tipi di istituti di credito (tipo SVB)? E se è così non siamo di nuovo di fronte solo all’ultimo episodio di un sistema, quello tecnologico ed in particolare delle start up, che rappresenta in realtà una bolla?
A partire dagli anni ’90 (Internet economy o Dot.com economy), l’industria tecnologica ha usufruito di canali di finanziamento degli investimenti diversi da quelli tradizionali, più interni al mercato finanziario, cercando di evitare il ricorso al credito bancario tradizionale. Due erano le modalità prevalenti: il ricorso al venture capital per quelle start-up tecnologiche non ancora quotate in borsa e l’emissione di titoli azionari, una volta quotate in borsa. In entrambi i casi, era la liquidità creata dalla speculazione finanziaria a consentire il finanziamento degli investimenti. Il ricorso al credito si rendeva necessario solo quando vi era bisogno di ingenti quantità di liquidità per procedere a fusioni e a acquisizioni, la principale strategia per far crescere l’impresa.
Dopo la crisi del 2008, la situazione è leggermente cambiata, anche se la logica speculativa come forma di finanziamento rimane dominante. Il ricorso alle banche infatti avviene anche come luogo dove depositare la liquidità in eccesso a seguito di una congiuntura favorevole, a mo’ di scudo protettivo. Ma il caso SVB ci mostra che tale precauzione non sempre funziona.
3. E ad oggi, secondo te, questa bolla è esplosa o ci sono già tutte le condizioni perché ciò avvenga? Tutto questo quanto e come ha a che fare con le perdite per oltre 400 miliardi nel 2022 dell’industria tecnologica europea e del numero altissimo di licenziamenti del comparto tecnologico dal 2022 ad oggi?
È difficile rispondere a questa domanda. Dopo il forte aumento della bolla speculativa nel corso del biennio 2021-22, trainata dal capitalismo delle piattaforme che si è fortemente avvantaggiato della sindemia da Covid-19, negli ultimi mesi si sono manifestate avvisaglie di una possibile nuova crisi finanziaria. Al momento, tuttavia, assistiamo a crisi locali di diversa natura. La situazione Usa è diversa da quella europea, dove le banche in crisi si collocano su livelli dimensionali più ampi. Credit Suisse ha pagato speculazioni farlocche, una gestione manageriale quasi criminale (con accuse di riciclaggio di denaro mafioso), che hanno portato ad un collasso prevedibile già 6 mesi fa. L’aumento dei tassi d’interesse e l’aumento dei costi di produzione (che in Europa, più che negli Usa, ha prodotto un’inflazione da profitti: https://effimera.org/laccordicchio-sul-gas-di-bruxelles-e-linflazione-da-profitti-di-andrea-fumagalli/) sono stati la goccia che ha fatto straboccare il vaso più che a riempirlo. Situazioni simili sono presenti per Alpha Bank (Grecia), alcune banche nordiche e BNP-Paribas (Francia: https://economictimes.indiatimes.com/news/international/business/credit-suisse-erupts-into-full-blown-crisis-as-rivals-back-away/articleshow/98679254.cms?from=mdr). Se non si attiva una messa in sicurezza (come ha fatto il governo svizzero che ha costretto USB al salvataggio, pena la minaccia di nazionalizzazione del Credit Suisse), è più facile una crisi bancaria europea che americana. Ma tutto è in movimento…
4. Le risposte del governo USA al fallimento delle banche. Se, quanto e come, per ora, sono diverse le risposte rispetto al fallimento delle banche del 2008? (Intervento a sostegno dei correntisti, anche oltre i 250 mila dollari, ma non degli azionisti).
Come già scritto, sotto l’Amminisrazione Trump c’è stata una deregulation nei controlli sugli stati patrimoniali delle Banche Usa. Il sostegno ai correntisti con depositi con più di 250.000 dollari obbliga l’intervento federale in caso di rischi di crack e ciò deresponsabilizza gli azionisti principali (che possono sempre vendere le proprie azioni prima che crollino, come è successo per la SVB). Il Tesoro e la Federal Reserve (Fed) per fronteggiare la crisi hanno già erogato prestiti straordinari alle banche per 300 miliardi di dollari ai quali vanno aggiunti gli altri 115 erogati attraverso i consueti canali di finanziamento della Federal Reserve. Gli analisti fanno notare che la Fed ha già fatto arrivare alle banche risorse pari alla metà di tutti gli interventi stanziati durante la crisi del 2008. A ciò si aggiunge l’interesse delle altre grandi banche Usa a non scatenare un effetto domino. Nel caso di First Republic Bank (14° banca Usa, più importante di SVB), il salvataggio, oltre dai fondi FED, vede anche la partecipazione delle prime undici banche del paese. I quattro gruppi maggiori, JPMorgan, Citigroup, Bank of America e Wells Fargo, contribuiscono con 5 miliardi di dollari ciascuno. Altri 5 miliardi li verseranno due banche d’affari, Goldman Sachs e Morgan Stanley. Toccherà ad altre cinque banche, Mellon, State Street, PNC, Trust e US Bank, completare la cordata versando i rimanenti 5 miliardi. In Europa, interventi di queste dimensioni, coordinati dalla Banca Centrale, non sono possibili, perché vietati dal Trattato di Maastricht e dagli accordi di Basilea.
5. Prossime mosse delle banche centrali. Il 16 marzo la BCE si è riunita per decidere di alzare, decisione già scontata prima del fallimento di SVB, di nuovo i tassi d’interesse e la FED lo ha fatto il 22 marzo. Quali ricadute, a fronte di questi ultimi avvenimenti americani, potrà avere un ulteriore aumento dei tassi, soprattutto in Europa?
La BCE ha alzato i tassi di 50 punti base (0,5%) come precedentemente annunciato. Non poteva fare altrimenti, perché, in caso opposto, correva il rischio di perdere credibilità, un rischio che una Banca Centrale non si può permettere. Occorre però notare che, a differenza delle precedenti dichiarazioni di aumento dei tassi, la governatrice Lagarde nella conferenza stampa non ha annunziato successivi aumenti. Ciò potrebbe far credere che l’aumento di questa settimana possa essere l’ultimo, anche alla luce dei dati sull’inflazione. Anche la FED ha mostrato maggiore cautela, aumentando i tassi d’interesse di soli 25 punti base rispetto ai 50 che era trapelato essere il possibile incremento, anche se non in modo ufficiale. A conferma, come già ricordato, della dipendenza delle scelte di politica monetaria dall’oligarchia finanziaria che definisce le convenzioni speculative.
6. E la politica monetaria del rialzo dei tassi in nome di una supposta lotta all’inflazione non è solo un modo diverso di dire austerità?
Una politica monetaria restrittiva (via aumento dei tassi d’interesse) ha sempre effetti recessivi mentre non è più vero il contrario. Nel contesto di un capitalismo finanziarizzato (economia finanziaria di produzione), l’aumento dei tassi d’interesse ha effetti depressivi sugli indici azionari e quindi sulle plusvalenze speculative, incrementa il costo del denaro penalizzando, a parità di aspettative, gli investimenti, con la conseguenza di incidere negativamente sul livello della domanda aggregata. Tale situazione ha anche lo scopo di penalizzare il lavoro, rendendo la dinamica salariale stagnante e favorendo la precarietà e l’intermittenza di reddito. Si ottengono così gli stessi risultati di una politica d’austerity ma con altre forme. Poiché la politica d’austerity incide sul bilancio pubblico, è lo smantellamento dei sistemi di welfare e la riduzione degli investimenti pubblici a deprimere la domanda aggregata e il potere d’acquisto del lavoro. Occorre infine dire che l’inflazione di oggi non è un’inflazione da domanda né da costo del lavoro. Le sue cause si trovano piuttosto negli intoppi della produzione logistica all’indomani della sindemia e nell’aumento delle materie prime, per motivi speculativi più che per scarsità di offerta. In tale ottica, la politica monetaria non ha effetto sull’inflazione. Non vi è più un nesso tra quantità della moneta e livello di prezzo. Ne è riprova la politica monetaria fortemente espansiva del “quantitative easing” che ha iniettato ingenti quantità di moneta nel sistema economico senza che ciò generasse un aumento del tasso d’inflazione. La ragione è semplice: la moneta creata dalle politiche espansive è stata assorbita dai mercati finanziari per aumentare il volume delle transazioni e far salire gli indici di borsa con lauti guadagni per i rentier finanziari e non è stata utilizzata per espandere l’attività di investimento, nonostante la riduzione dei tassi d’interesse, a causa di aspettative negative sulla domanda futura attesa (stagnazione salariale). Se l’inflazione nei mesi futuri diminuirà non è per l’effetto delle politiche monetarie ma perché vengono meno i fattori strutturali e reali che l’hanno generata.