La narrazione deformante, i riflessi condizionati, la rabbia giusta

L’intervento dei Centri Sociali delle Marche dopo il tragico episodio di Civitanova M.

Il razzismo nel nostro paese è questione quotidiana, sociale, politica e culturale, come si è letto spesso in questi giorni è una vera questione sistemica. Ciononostante tutto questo emerge nel dibattito pubblico solo saltuariamente, il più delle volte rimane sotto traccia, come un tema di cui non si può o, il più delle volte, non si vuole parlare. Quindi condividiamo la rabbia e lo sdegno che sono seguiti a quanto accaduto a Civitanova Marche il 29 luglio scorso da parte di chi non riesce a tollerare il razzismo che vede ogni giorno, ancor di più condividiamo quella rabbia e quello sdegno provati da chi quel razzismo lo vive sulla propria pelle.

Tuttavia crediamo che il brutale assassinio avvenuto ai danni di Alika Ogorchukwu non sia per nulla riconducibile o paragonabile ai fatti che hanno interessato Fermo e Macerata nel 2016 e nel 2018. Questi impropri accostamenti sono piuttosto frutto di ricostruzioni distorte dell’accaduto dal quale – una volta entrati nel tritacarne del racconto mediatico mainstream – non si è più riusciti ad uscire. Quindi se, ripetiamo, condividiamo le sacrosante ed istintive reazioni di chi ha visto in questo ennesimo caso di cronaca il ‘punto di caduta’ di quanto accade ogni giorno, non riusciamo a condividere, anzi, rigettiamo il dibattito pubblico che si è sviluppato. Lo riteniamo falso, spesso in malafede o ad uso e consumo della campagna elettorale in pieno svolgimento e soprattutto dannoso per il discorso intorno al razzismo – per questa ragione ci teniamo a precisare questo aspetto, non solo perché ci interessa genericamente ricercare ‘la verità’.

Contribuire in maniera semplicistica ad incentivare la percezione di un razzismo generale, generalizzato e indistinto nella sostanziale totalità della popolazione e strumentalizzare un evento tragico che ad oggi non sembra avere nessun movente razziale per costruire una propaganda sulla percezione del razzismo, significa alimentare dinamiche che non possono che ri-generare il razzismo stesso. Rappresentare una realtà ineludibile e monolitica non contribuisce a muovere verso un sovvertimento del presente o a creare un contesto politico almeno in grado di immaginare questa prospettiva, al contrario non può che produrre una sua cieca e passiva accettazione. Costruire un nemico invincibile è auto assolutorio e confortante esattamente come negarne l’esistenza.

In questi giorni abbiamo infatti assistito a due reazioni speculari, da un lato chi si è affrettato ad affermare che il razzismo non esiste, dall’altro quanti hanno paragonato le Marche all’Alabama del 1800 (ricordiamo ancora Il Messaggero, a pochi giorni dall’attentato fascista di Traini, titolare a tutta pagina “Sembra Macerata” in merito a un articolo sul ‘degrado’ della stazione Termini). Questi due atteggiamenti hanno in comune qualcosa di molto pericoloso. Una matrice reazionaria che, consapevoli o meno, ci conduce, con rassegnazione e arrendevolezza, all’assunto che viviamo nell’epoca neoliberale e non c’è alternativa. In comune c’è l’idea che la società sia definitivamente e inevitabilmente disgregata. Significa presupporre che non sono possibili legami sociali e relazioni di solidarietà nel corpo sociale. Significa ammettere la dimensione profetica della signora Thatcher, “la società non esiste, esistono solo gli individui”.

Ciò si traduce inevitabilmente in un dibattito che chiede più controllo, più ‘sicurezza’, più repressione. Tutto viene ridotto a una questione di ordine pubblico, da risolvere nelle aule di un tribunale. Conseguenze che, in ragione della natura sistemica del problema, ricadono in primis proprio sulle vittime che ‘in astratto‘ si vorrebbero tutelare e su chi prova ad immaginare una società diversa da quella contro cui ogni giorno ci troviamo a combattere singolarmente e collettivamente.

Un aspetto che fin da subito abbiamo ritenuto particolarmente indigesto rispetto alla ricostruzione – che risulta coerente con quanto rilevato in precedenza – è quello che riguarda le “decine di persone che hanno assistito senza muovere un dito” (anche qui, elemento emerso nel racconto a caldo dei primissimi minuti dal quale non si è mai tornati indietro). Intanto le persone che hanno assistito materialmente alla scena si contano sulle dita di una mano, qualche anziano, ragazze e ragazzi molto giovani; poi va sottolineato che tutte queste persone hanno, per quanto possibile, contribuito a soccorrere in vari modi Alika. Abbiamo testimonianze dirette di persone sensibili ai temi in questione ancora sotto shock. Ma anche qui, andando oltre la ricostruzione fattuale, vorremmo provare a puntualizzare alcune cose. Intanto ci sembra molto semplicistico affermare “io avrei fatto…”, “io sarei intervenuto…”, sono dichiarazioni che si possono fare sbadatamente dal divano con lo smartphone in mano, ben diverso è trovarsi all’atto pratico. Certo che si sarebbe potuto intervenire, ma non è con la ricerca dell’eroe di turno che si possono spiegare situazioni di questo tipo o si possono colpevolizzare persone.

Aggiungiamo inoltre che viviamo da decenni in una società in cui ‘intervenire’ contro ingiustizie e deprivazioni viene non solo disincentivato, ma viene condannato e represso. Chi salva vite in mare come chi si oppone allo sperpero di denaro pubblico per la realizzazione di opere che devastano l’ambiente, chi si batte per condizioni di lavoro degne come chi lotta contro questo modello di sviluppo che ci ha portato alla crisi climatica, viene sistematicamente delegittimato se non mandato in carcere. E di fronte a questo perenne richiamo all’invito “fatti i cazzi tuoi che a queste cose ci pensano il governo, la polizia, i tribunali” ci aspettiamo che d’improvviso salti fuori la singola persona coraggiosa lancia in resta? Ci chiediamo poi come mai si arrivi quasi a pretendere una reazione violenta di un passante in una condizione di scontro ‘uno contro uno’ quando contro il razzismo sistemico, che si esprime attraverso leggi e misure che toccano una collettività di soggetti, non viene mai accettata nessuna forma di contestazione o opposizione, figuriamoci quelle che possano essere considerate ‘violente’.

Sia chiaro che le nostre riflessioni non si rivolgono a chi dichiara di voler costituirsi parte civile – o a chi invita a farlo – per difendere i ‘valori marchigiani’ né tantomeno a quei partiti della ‘sinistra’ – qualunque cosa voglia dire nel 2022 questo termine – pronti a sciacallare qualunque tragico episodio per tornaconto elettorale dopo aver avallato se non direttamente contribuito a quel razzismo sistemico di cui sopra.

Ci rivolgiamo alle tante e ai tanti che quando leggono di un’ingiustizia hanno ancora un crampo allo stomaco, e che magari, in questo periodo dove un movimento per trasformare il presente degno del suo nome non esiste più, se non come singole esperienze disperse e del tutto insufficienti ad affrontare la gravità del presente, non sanno bene come trovare modalità di espressione della loro rabbia.

Questa è la nostra stessa condizione, noi per primi riconosciamo la nostra insufficienza, ma ciononostante ci impegniamo per provare a ricreare un contesto politico, sociale e culturale in cui si possano trovare forme di espressione della rabbia che tutte e tutti noi quotidianamente accumuliamo. Creare, scientemente o meno, narrazioni come quella che abbiamo visto operare in questi giorni non fa altro che generare frustrazione nei singoli e atomizzazione della società. Quando invece occorrono relazioni e prese di parola collettive che non possono nascere dalla necessità di rispondere istintivamente ad un titolo di Repubblica ma dal lavoro quotidiano e dall’immaginazione conflittuale di tutte e tutti.

Centri Sociali delle Marche

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