Flowing

(Gennaio 2021)

A quasi un anno dal primo lockdown abbiamo ritenuto necessario tentare di “organizzare” all’interno di un documento quella miriade di riflessioni, interrogativi e percezioni che nel corso dei lunghi mesi di pandemia ci siamo un po’ caoticamente scambiati al nostro interno. In questo difficile tentativo di razionalizzazione abbiamo scelto di concentrarci su alcuni profili tematici che riteniamo di maggiore utilità per le prospettive di intervento con le quali pensiamo che dovremo misurarci nelle prossime settimane e nei prossimi mesi.

La prima domanda che ci siamo posti nell’apprestarci a realizzare questa ricostruzione scritta della nostra riflessione è stata: da dove cominciamo? Risposta tutt’altro che semplice nella vorticosa mole di questioni che la pandemia ha posto sul terreno. Abbiamo allora deciso di seguire un criterio “cronologico” e di partire dalla primissima percezione, non emotiva ma politica, che l’avvento della pandemia ci ha suscitato, ovvero la profonda vulnerabilità dell’economia globalizzata che l’infinitesimale vita del virus è riuscita a mettere così bruscamente in crisi.

1. VULNERABILITA’ E TENUTA DEL SISTEMA

Una crisi, tutto sommato, anche prevedibile, seppur non nelle modalità e nelle dimensioni planetarie in cui essa si è manifestata. In realtà avevamo già assistito in altre occasioni, in particolare in occasione della crisi dei mutui subprime, come allo svilupparsi di uno specifico focolaio di crisi possa, in breve tempo, corrispondere una sua rapida generalizzazione. Non si tratta evidentemente di mere coincidenze: o meglio, i fattori che di volta in volta possono innescare una crisi di ordine generale possono anche essere contingenti o occasionali, ma in ogni caso essi insistono su una vulnerabilità che, invece, è permanente e sistemica. E’ la stessa dimensione globale dell’economia capitalistica che inevitabilmente produce nuove variabili di crisi ed espande quelle che precedentemente restavano confinate in aree delimitate, creando le condizioni che determinano un rapido effetto “contagio”, attraverso la diffusione dei fattori di crisi all’interno delle indistricabili catene economiche. Sarebbe, tuttavia, un errore confondere il concetto di “vulnerabilità” con quello di “fragilità”. In realtà la pandemia ha fatto emergere potenzialità di assorbimento delle variabili di crisi di gran lunga superiori a quelle ipotizzabili sotto il peso della propaganda ideologica dell’austerity seguita alla crisi del 2008. Pur nell’evidente difficoltà di mettere tempestivamente a punto una strategia globale e pur lasciando sul terreno anche pezzi importanti degli asset di produzione, nel corso dei mesi le strategie si sono affinate fino a garantire una tenuta complessiva del sistema, in funzione della quale sono state immesse nelle catene economiche risorse finanziarie fino a poco tempo fa inimmaginabili. Risorse che, tuttavia, non sono “a perdere”: nella crisi generata dalla pandemia le risorse economiche destinate a sostenere i consumi e ad evitare la precipitazione del conflitto sociale non corrispondono ad una ridistribuzione delle ricchezze, ovvero ad un trasferimento verso il basso di una parte consistente delle ricchezze detenute dalla classe dominante. Gran parte delle risorse messe in circolazione per fronteggiare la crisi restano, infatti, vincolate ad una dinamica di indebitamento e, quindi, ad un meccanismo di “restituzione” o in termini prettamente monetari o in termini di investimenti e “riforme” in grado di garantire ai capitali finanziari nuovi mercati e nuovi margini di azione e valorizzazione. Non è un caso che tra le molteplici ipotesi di intervento per fronteggiare la crisi non sia mai stata contemplata la possibilità di un intervento volto direttamente ad azzerare o ridurre drasticamente il debito pubblico degli Stati, nonostante generalmente si tratti di un debito già pagato e riprodottosi attraverso la trappola degli interessi.

2. IMPLEMENTAZIONE DEL PROCESSO DI DESTRUTTURAZIONE DELLO STATO DI DIRITTO

Il processo di destrutturazione dello Stato di diritto e di dismissione del suo impianto culturale, normativo e istituzionale, già in atto da tempo, ha trovato nella crisi sanitaria mondiale una straordinaria occasione di accelerazione. Non si tratta in questa sede di entrare nel merito dei provvedimenti adottati e delle molteplici valutazioni che attengono al tema della necessità/strumentalità/proporzionalità/efficacia delle singole misure. Comunque si valutino le misure adottate, il risultato non cambia. La pandemia ha oggettivamente prodotto le condizioni politiche, ideologiche e sociali che hanno consentito in un arco temporale più che mai breve di portare l’affondo fino ai gangli primari dello Stato di diritto. L’accentramento dei processi decisionali e la corrispondente marginalizzazione delle istituzioni parlamentari, la sospensione del diritto alla libera circolazione, il rientro repentino e prepotente non solo nella nostra quotidianità, ma anche nell’immaginario del “possibile” e dell’ “attuale”, del dispositivo del “coprifuoco” sedimenta un passaggio che travalica le misure stesse per precipitare nella “ratifica” sociale e politica della crisi generale e strutturale dello Stato di diritto. La frattura delle garanzie fondamentali proprie dello Stato di diritto e del costituzionalismo moderno è penetrata a fondo nell’ordinamento, andando ben oltre le misure restrittive degli spostamenti e delle attività commerciali, che inevitabilmente per il loro impatto sociale hanno catalizzato l’attenzione generale. Nel corso dei mesi, mentre i fari erano puntati su misure comunque di natura temporanea, in quanto esse stesse disfunzionali ai processi di valorizzazione capitalistici, la normativa “pandemistica” ha aggredito strutturalmente, con modifiche stabili e destinate a consolidarsi nel tempo, dispositivi giuridici fondamentali dello Stato di diritto. Le garanzie tipiche dell’ordinamento penale, i diritti di difesa dell’imputato e le garanzie processuali hanno subito un tracollo straordinario; i diritti del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione hanno registrato un arretramento verticale, l’accesso a servizi fondamentali è diventato un terno al lotto rimesso alla discrezionalità di dirigenti, poliziotti, capi degli uffici giudiziari e baroni di varia natura. La normativa sugli appalti e sugli insediamenti industriali è stata “semplificata”, favorendo l’aggiramento della normativa ambientale. La prassi storicamente consolidata in base alla quale in presenza di eventi catastrofici di diversa natura, vengono adottati provvedimenti di amnistia e di indulto volti a decongestionare i luoghi di reclusione e ad allentare il carico giudiziario, è stata “spettacolarmente” violata: carceri e cpr sono rimasti chiusi e di fronte alla necessità di diluire il carico giudiziario l’integralismo repressivo ha pensato bene di allungare i termini di prescrizione dei reati e, persino, di allargare i termini di durata delle misure cautelari. Pandemia e crisi dello Stato di diritto non sono in un rapporto di causa/effetto: la pandemia ha, però, generato un impulso di accelerazione nel processo già in corso con il quale i prossimi mesi dovremo fare i conti perché inevitabilmente pone il tema della conflittualità ad un altro livello, con ciò che ne consegue sotto il profilo organizzativo e politico.

3. DIFFERENZE DI CLASSE

Sono bastati pochi giorni dalla proclamazione del primo lockdown per far emergere in tutto il suo spessore materiale il peso delle differenze di classe, la brutalità, violenza e vivacità della struttura classista della società, che il virus ha di nuovo messo a nudo con formidabile potenza. Alla nitidezza con la quale il virus ci ha restituito l’immagine di una società più che mai divisa in classi e radicata nelle disuguaglianze come dimensione strutturale del sistema economico e degli assetti sociali, non è corrisposta quella diffusa conflittualità di classe necessaria per imprimere una svolta all’andamento della crisi. Questo non significa che sia mancata la reattività sociale: al contrario sono stati molteplici gli eventi ed i percorsi che hanno messo in campo una risposta da parte del corpo sociale maggiormente colpito nelle sue primarie condizioni di vita e che hanno dato voce al bisogno diffuso di riaprire spazi di azione da parte delle stratificazioni sociali più precarizzate ed espropriate di prospettive per il proprio futuro. Tutto ciò costituisce una sedimentazione di estrema importanza perché offre un tessuto ed un campo di intervento con i quali possiamo e dobbiamo misurarci. E’ però necessario, proprio per tentare di individuare con la maggiore congruità possibile i percorsi praticabili, analizzare tale contesto con estrema oggettività e massima aderenza alla realtà. Non abbiamo bisogno di rappresentazioni gratificanti o di racconti leggendari: abbiamo bisogno di leggere il reale, il che, già di per sé, è alquanto complesso. Senza avere la pretesa di addentrarci qui in un’analisi complessiva e dettagliata delle dinamiche sociali che hanno caratterizzato questo primo anno di pandemia, ci sembra tuttavia di oggettiva evidenza che la risposta sociale non è riuscita a rompere l’egemonia politica “di classe” esercitata dal capitale e ad esprimere la propria autonomia, ovvero ad individuare e imporre i propri interessi, inevitabilmente divaricanti rispetto a quelli non solo del grande capitale, ma anche dell’imprenditore della via accanto che al suo bisogno di profitto non disdegna certo di piegare la vita dei “suoi” dipendenti e di far lavorare in nero con salari da fame qualche immigrato senza permesso di soggiorno. Ovviamente ci sono ampi settori di autoimprenditoria, piccole attività, micro esercizi economici che in realtà sotto il profilo materiale appartengono al campo degli sfruttati: affinchè a tale condizione materiale corrisponda una soggettivazione di classe è, però, più che mai necessario rompere l’egemonia politica della classe dominante, quell’egemonia che spesso riesce a funzionalizzare ai propri interessi il disagio economico e “culturale” di questa composizione sociale. Ma per rompere tale egemonia politica, costruita attraverso una costante ed organica azione di classe da parte del capitale, è necessario riaffermarsi ed agire come classe, tanto più nella fase di crisi e di profonda ristrutturazione che stiamo attraversando. Ciò implica necessariamente tornare a misurarsi in maniera organica con il tema dell’autonomia di classe, ovvero con una narrazione che sia in grado di restituirle visibilità e centralità e con una pratica che sia capace di materializzarne gli effetti sul terreno concreto dell’azione. Siamo perfettamente consapevoli del fatto che tale prospettiva si radica in processi sociali complessi, che certo non dipendono da mere scelte volontaristiche o semplicemente dal campo di azione di frammenti di una soggettività ad oggi quanto mai marginale e debole. Ciononostante, continuiamo a credere che ogni punto di soggettivazione, grande o piccolo, stabile o instabile che sia, abbia il compito di affrontare questa necessità e funzionalizzare ad essa la propria sfera di azione. I grandi processi che incarnano lo scontro di classe sono il prodotto di molteplici concause e variabili che interagiscono tra loro: in questo pluriverso di fattori, per quanto grande esso sia, ci siamo anche noi, le nostre scelte, i nostri rischi, le nostre speranze, e, quindi, il nostro “discorso”, cioè la sequenza di contenuti e azioni che riusciamo a mettere in campo. L’esercizio dell’autonomia di classe non è un punto di arrivo, ma un punto di partenza, un processo nel quale esso costituisce nel contempo strumento di analisi, di individuazione degli obiettivi e di elaborazione di una visione, senza la quale restiamo schiacciati nell’estemporaneità dell’intervento e nell’inaggirabile difficoltà di sedimentare un accumulo esponenziale, che abbia un “RT superiore ad 1”. Nel contesto della pandemia la difficoltà di assumere una visione di parte e di declinarne gli interessi ha prodotto degli evidenti corto-circuiti. Dentro il costrutto totalizzante del “lockdown” non si è riusciti a declinare una visione autonoma del tema delle “aperture/chiusure”, così che luoghi che dovevano essere chiusi, come le fabbriche lombarde, sono rimasti aperti, costando la vita o la salute di lavoratrici e lavoratori, mentre luoghi che dovevano essere aperti, come gli istituti carcerari ed i cpr, sono rimasti chiusi, ai danni della vita e della salute della popolazione detenuta e di quella migrante. Allo stesso modo le gravi criticità emerse in ambito scolastico, che avrebbero consentito di riportare sul terreno la miseria dell’istruzione pubblica, il suo asservimento ai privati e l’espulsione di ogni possibilità di ricerca autonoma, si sono spesso rovesciate in una paradossale difesa della sacralità delle istituzioni scolastiche e nella loro valorizzazione. Riportare al centro del ragionamento il tema della classe e della sua autonomia è, prima di ogni altra cosa, un metodo, un criterio di lettura della realtà ed uno strumento di individuazione, al suo interno, degli interessi di classe, ovvero degli obiettivi.

4. LA “FLOW-CLASS

Non è possibile ricentralizzare il tema della classe senza assumere la necessità di riportare al centro del ragionamento il tema dello scontro primario tra Capitale e Lavoro. Ovviamente parlare oggi di classe e di scontro tra Capitale e lavoro ci impone, all’interno di una visione materialistica della storia, di misurarci con il significato attuale di “classe” e di “lavoro”, assumendo i cambiamenti verticali che sono intervenuti nel corso degli ultimi decenni nell’organizzazione produttiva e nella strutturazione sociale. Su entrambe le questioni abbiamo certamente bisogno di approfondire l’analisi e di elaborare nuove letture che consentano ai contenuti concettuali di essere effettivamente aderenti alla realtà viva in cui si dipana la nostra quotidianità. Non è, né potrebbe essere, tra gli obiettivi di questo contributo affrontare tale piano analitico e teorico. Riteniamo, tuttavia, che, pur nella complessità del contesto, alcuni dati di fondo, immediatamente leggibili, ci vengano ogni giorno “restituiti” dalla realtà che viviamo e, con ancora maggiore contrasto e chiarezza, proprio dalla realtà estremizzata, o meglio, mutuando il linguaggio del virtuale, dalla realtà “aumentata” a cui ci costringe la pandemia. Spesso e volentieri quando si parla di classe si finisce in tortuose riflessioni sulla sua composizione, che a loro volta decadono nel vano tentativo di immortalare tale composizione in un’istantanea efficace. Tentativo, dicevamo, vano perché non è possibile catturare in una rappresentazione statica un fenomeno che, invece, è dinamico, in costante movimento e trasformazione. Al contrario, proprio di questa dinamicità dovremmo farcene una ragione, assumerla come il tratto distintivo della classe nella nostra epoca. Nell’accezione classica, classe e composizione di classe si radicavano all’interno di rapporti di produzione facilmente schematizzabili, che coinvolgevano figure sociali tendenzialmente stabili ed omogeneizzate dallo stesso sistema di produzione e di sfruttamento. La realtà che viviamo oggi è, sotto questo profilo, rovesciata, completamente rimodellata dalla rivoluzione digitale, grazie alla quale il capitalismo ha interamente ridefinito i dispositivi di sfruttamento e di estrazione delle ricchezze. L’avvento dell’era digitale non ha semplicemente modificato la realtà, ma ne ha prodotto un’altra dove il confine stesso descritto da Marx della sussunzione reale del lavoro al capitale è stato travalicato a vantaggio di quella che potremmo definire la sua “sussunzione organica”, realizzata attraverso una vera e propria fusione dell’umano e del macchinico all’interno dei nuovi dispositivi dello sfruttamento digitalizzato. La composizione di classe nell’epoca dello sfruttamento digitalizzato presenta inevitabilmente caratteristiche inedite: diverso è il modo di produrre, diverso è il rapporto con i mezzi di produzione e diverse sono le figure sociali che la compongono, delle quali entra a far parte a pieno titolo anche il nostro “io digitale”, che non è semplicemente una proiezione virtuale del nostro io fisico, ma è molto di più, vive di una sorta di vita propria, lavora costantemente alla raccolta ed al trasferimento dei dati estratti dalla nostra esistenza (e da quella di tutti coloro che entrano nel nostro campo relazionale), all’interno della “fabbrica” virtuale, dove i dati vengono espropriati, valorizzati e trasformati in ricchezza. Nell’epoca digitale i processi di valorizzazione si basano essenzialmente su un sistema di “flussi”: flussi di merci, di dati, di informazioni, di capitali. La “classe” non si sottrae a questa dinamica generale: anche la classe in fin dei conti è un “flusso” di persone, dati, conoscenze, abilità, cooperazione sociale, che transita costantemente dalla sfera virtuale a quella fisica e che viene canalizzato nei processi di valorizzazione. Mentre nella classe a composizione prevalentemente operaia il cuore del sistema di sfruttamento era nel controllo del luogo e dei tempi di produzione, nella “flow-class” il dispositivo primario di sfruttamento poggia sulla capacità di controllo e di organizzazione del “flusso”, che non è un prodotto della classe, ma la classe stessa messa a lavoro. La “flow-class” è costantemente messa a lavoro, perchè il flusso deve essere continuo, senza perimetri né di orario, né di luogo: è attraverso la flow-class che il capitalismo estrattivo riesce a perseguire le proprie finalità di sfruttamento e appropriazione. Nella flow-class le figure sociali coinvolte possono cambiare, modificarsi, alternarsi: ciò che deve essere salvaguardato è il “flowing” e non la sedentarietà delle figure che lo alimentano. Ed è proprio in rapporto al “flowing” che finiscono con il configurarsi le differenze e le appartenenze di classe. L’appartenenza di classe e, quindi, in ultima analisi, la sua composizione, non è misurabile in rapporto alla mera proprietà dei mezzi di produzione o alla natura subordinata o meno dell’attività svolta. Essa si definisce sulla base della differenza intercorrente tra chi ha il potere di gestire, organizzare e finalizzare il flowing e chi è costretto a scorrerci dentro mettendo a frutto le proprie capacità di navigazione per evitare di affogare o di finire arenato in un argine, senza garanzie e senza diritti; tra chi da quel flowing ricava ricchezze, garanzie e status sociale, e chi è costretto alla precarietà, alla povertà, alla negazione dei bisogni primari; tra chi difende e sostiene la finalizzazione del flowing, e chi, invece, ritiene necessario deviarla e, in ultimo, sovvertirla. E se la classe “in sé” assume le caratteristiche di un flusso dinamico di persone, vite e conoscenze, la classe “per sé”, ovvero il processo di soggettivazione, assume tendenzialmente le caratteristiche della capacità di “re-direct” del flusso, ovvero della sua deviazione, anche se inizialmente parziale e limitata, dalle finalità alle quali esso è preordinato. Per questo oggi più che mai è prioritario riaffermare con forza il tema dell’autonomia, del suo esercizio e dei processi volti alla sua organizzazione ed espansione. Il flusso travolge e valorizza tutto ciò che ne fa parte, anche le forme di “dialettica critica”, laddove questa non si traduca in una deviazione, strozzatura, ostruzione del flusso. Riportare al centro della narrazione e dell’azione il tema dell’autonomia di classe non è semplicemente una scelta: è una necessità per recuperare la capacità di individuare obiettivi che, seppur contingenti e parziali, siano collocati all’interno di una visione strategica e progettuale, senza la quale la critica finisce inesorabilmente con l’essere costantemente disarticolata, canalizzata in finzioni universalistiche dove le classi spariscono a vantaggio della “persona” atomizzata o, tuttalpiù, inserita in una specifica “categoria” di esseri umani avulsi dalle condizioni materiali di esistenza, dal “flusso” che li subordina e ne determina la vita. Nella “realtà aumentata” della pandemia e della crisi, le differenze di classe e la struttura classista della società emergono con rinnovata potenza, creando le condizioni per la riapertura di un “discorso” sociale sul tema delle classi. Il che inevitabilmente implica riportare al centro della nostra visione la contraddizione primaria tra Capitale e Lavoro, dove però il concetto di “lavoro” deve essere liberato dalle sue declinazioni classiche per assumere il contenuto dei rapporti di produzione generati dagli attuali processi capitalistici di valorizzazione ed estrazione delle ricchezze. Ciò significa che quando parliamo della relazione confliggente tra Capitale e Lavoro parliamo in realtà del conflitto strutturale tra il Capitale e la società messa al lavoro, ovvero tutta quella composizione sociale costretta al flowing deciso, gestito e organizzato dal Capitale. Una dimensione confliggente che non può essere semplificata nella rappresentazione di uno scontro tra il Capitale e la Vita. In realtà non è corretto neppure dire che il Capitale sia contro la vita perché, al contrario, essa costituisce l’insostituibile fonte dei processi di valorizzazione. Che poi tali processi determinino la distruzione della vita, questo è un altro discorso: le multinazionali del petrolio non sono “contro” i combustibili fossili per il semplice fatto che, per valorizzarli, ne devono determinare il consumo e, quindi, la “distruzione”. Lo scontro non è tra il Capitale e la Vita, ma tra il Capitale e la Vita messa al lavoro, ovvero la vita dentro i rapporti di produzione, dentro le relazioni di cooperazione/condivisione da cui il Capitale estrae valore e dentro le quali, proprio per il fatto di essere, in ultimo, relazioni sociali, possono determinarsi i processi di soggettivazione conflittuale. Processi di soggettivazione che, nell’epoca dello sfruttamento digitale e globalizzato, sono tutt’altro che semplici. L’attuale dimensione estrattiva dello sfruttamento, non deve trarci in inganno accreditando l’idea di un Capitale sostanzialmente arroccato in una mera posizione di “sorveglianza” di un sistema altrimenti “autonomo”. In realtà se è vero che il controllo e la sorveglianza svolgono un ruolo fondamentale nel capitalismo del ventunesimo secolo, è altrettanto vero che la sorveglianza non è affatto sufficiente a definire complessivamente il capitalismo della nostra epoca ed i soggetti che compongono la sua classe. Lungi dall’attestarsi sul mero ruolo di controllore, il Capitale, attraverso le sue piattaforme, che ad oggi costituiscono il suo primario impianto organizzativo, ha la regia dei flussi, organizza, gestisce e impone i processi di valorizzazione su scala planetaria, possiede le chiavi algoritmiche del sistema. Per questo le dinamiche di soggettivazione ed i relativi percorsi organizzativi sono complessi e necessitano di una visione progettuale. E’ anche vero, però, che laddove queste dinamiche si determinino possono poi contare su potenzialità inedite, derivanti proprio dalla dimensione di cooperazione sociale che sta alla base del sistema di sfruttamento e dalla stessa dinamicità del “flowing”che mette in relazioni conoscenze, figure sociali e abilità molteplici, che vede uscire ed entrare nella flow-class con una mobilità prima sconosciuta anche soggetti appartenenti alla classe avversa, con il loro patrimonio di esperienze e conoscenze. Le prospettive di soggettivazione sono complesse e dense di difficoltà. Ciononostante complessità e difficoltà non possono diventare un alibi, la giustificazione di una prassi che, anche quando mette in campo azioni e iniziative, di fatto esprime un approccio deterministico che oscilla tra la speranza di un fatale evento salvifico, l’illusione di “acchiappare” la manifestazione giusta, che determinerà la svolta che poi non c’è mai, l’attesa di una precipitazione generale che magicamente torni a legittimare la necessità storica di un cambiamento rivoluzionario. In realtà la precipitazione generale c’è stata, ci siamo dentro: chi, solo fino a pochi mesi fa, avrebbe potuto immaginare la dimensione di crisi che stiamo vivendo? Eppure anche nella crisi di ampie proporzioni che stiamo attraversando i processi di soggettivazione e, quindi, di esercizio, seppur parziale e frammentato, dell’autonomia di classe, stentano a prodursi, mentre il Capitale, ancora una volta, rivela un’ampia capacità di mettere in campo mezzi materiali e dispositivi di propaganda ideologica con i quali riesce ad assorbire il contraccolpo ed a riprogettare dentro la crisi le proprie catene di valorizzazione. L’illusione di una crisi generale che di per sé determini l’insorgenza di processi rivoluzionari ci ha sempre tradito. Quando questo si è verificato è perché dentro la crisi agivano processi di soggettivazione già in atto, visioni in grado di dare una lettura di classe della crisi, connessioni organizzative in grado di dare sostanza ad obiettivi programmatici che, seppur contingenti e di fase, erano in grado di esprimere gli interessi di classe e di sedimentarne l’egemonia. Dentro la pandemia dobbiamo tornare a misurarci con tutto questo, perché è la crisi stessa, le contraddizioni che essa rende evidenti, ad offrirci le condizioni per riannodare i fili di un discorso, per iniziare a ricostruire il dispositivo primario del nostro agire politico, ovvero l’interazione tra una visione generale ed un piano programmatico contingente, capace di dare a quella visione la concretezza di obiettivi immediatamente praticabili. Dobbiamo fare questo assumendo fino in fondo i nostri limiti, sapendo che siamo solo dei punti sparsi all’interno di processi incommensurabilmente superiori a noi. Eppure da questo vogliamo e dobbiamo ripartire. Senza l’ansia disperante di chi bloccato in un’isola spera di riuscire a salire su qualche motoscafo di passaggio ed, invece, con la serenità di chi, accettata l’idea che se vuole lasciare l’isola deve costruirsi l’imbarcazione, inizia a mettere insieme i pezzi della zattera.

Dire che è necessario ricostruire una visione e riportare al centro della nostra narrazione il tema della classe, della sua autonomia e dello scontro tra Capitale e Lavoro nell’accezione che abbiamo sopra specificato, non significa ricadere nel vizio storico della costruzione di una gerarchia delle contraddizioni e delle criticità che vivono e si sviluppano all’interno del sistema. Lo abbiamo premesso nella parte iniziale del documento: nell’economia globalizzata e finanziarizzata ogni elemento di crisi può essere dirompente ed assumere una portata generale. Ma quando parliamo di classe e dello scontro tra Capitale e Lavoro, non parliamo dei punti di crisi che si sviluppano all’interno del sistema, ma del sistema stesso, del contesto generale dentro cui le contraddizioni si sviluppano ed assumono i propri connotati. Le narrazioni meta-storiche, che collocano le contraddizioni al di fuori dello specifico contesto materiale in cui si determinano e le riducono a caratteristica di una generica ed astratta storia umana, non ci appartengono. Sfruttamento, oppressione di genere, razzismo sono indubbiamente fenomeni che oltrepassano di gran lunga la storia del capitalismo. Ma come essi si sono materialmente manifestati nel corso della storia e, quindi, ciò che essi sono effettivamente stati, la dimensione concreta, viva dell’oppressione che hanno generato, è stata di volta in volta determinata dal contesto generale, economico, culturale, politico e istituzionale, che ha caratterizzato ogni singola epoca. A titolo meramente esemplificativo, i dispositivi razziali all’epoca dell’impero romano non erano uguali a quelli costruiti con l’avvallo del darwinismo sociale durante la rivoluzione industriale del diciannovesimo secolo, né avevano la medesima funzione. Riportare al centro le caratteristiche del sistema che occupa la nostra epoca non è un modo per ridimensionare le contraddizioni che si muovono al suo interno o la loro specificità, ma, al contrario, per assumerle pienamente nella loro concreta dimensione storica, senza la quale esse tendono a diventare astratte e rituali, assorbite in una narrazione universalizzante che formalmente le valorizza, ma in realtà le depotenzia disincarnandole dalle specifiche responsabilità ed implicazioni riconducibili al sistema dentro cui esse si producono.

5. META-TEMI?

La contraddizione climatica riveste evidentemente un ruolo di primaria importanza, sia per gli effetti di ordine generale che essa produce, sia per il fatto che essa è destinata inesorabilmente ad approfondirsi e dilatarsi, essendo geneticamente connessa ai processi estrattivi di valorizzazione capitalistica. Inoltre, proprio dalla crisi climatica si producono le condizioni per rielaborare una visione progettuale nella quale non solo il superamento della crisi, ma anche il superamento della stessa condizione di alienazione dell’esistenza umana dal suo contesto naturale, animato o inanimato che sia, si radica nella necessità di un rovesciamento del sistema economico e di una diversa relazione tra il vivente umano ed il vivente non umano. Il che, tuttavia, non significa che ci siano “ordini naturali” ai quali dovremmo rimetterci. Non esiste alcun “ordine naturale”, ma solamente un insieme di equilibri e disequilibri che si sono prodotti nel tempo quali conseguenze dirette di sconvolgimenti, interazioni, trasformazioni, indotti da eventi naturali o artificiali. Il rischio che dentro la necessità di ripensare le interrelazioni nel vivente si finisca direttamente o indirettamente con l’accreditare l’idea o anche solo la percezione di un preesistente ordine naturale a cui doversi conformare è sempre dietro l’angolo, con tutte le conseguenze che esso implica. Il costrutto ideologico degli “ordini naturali” nel corso della storia ha sempre servito la causa dei totalitarismi, degli ordinamenti etici, degli integralismi e non quella dell’emancipazione e dei processi di liberazione. Non esiste alcuna Madre Natura a cui dobbiamo obbedire, né alcun ordine naturale a cui dobbiamo sottometterci: se ci fosse sarebbe anch’esso nel campo del sovvertibile, di ciò che può essere cambiato, trasformato, rovesciato. Non esistono altri confini se non quelli del progetto stesso: è al suo interno che immaginiamo relazioni diverse, che assumiamo gli equilibri da rispettare e quelli da rompere, che abbattiamo quella piramide che pone al suo vertice l’essere umano e le sue gerarchie, a vantaggio di un piano tutto orizzontale del vivente dove le interazioni sono determinate dai bisogni reali e non da quelli indotti dal profitto.

Tornando, dunque, al tema della crisi climatica ed ecologica, è evidente l’importanza che essa assume nell’attuale contesto storico: ne è consapevole anche il capitalismo più lungimirante che, non a caso, anche al costo di una seria conflittualità intercapitalistica, sta cercando di costruire una strategia per fronteggiarla, sia sul versante organizzativo, che sul versante culturale ed ideologico. Ciononostante non pensiamo che la questione climatica possa costituire un “meta-tema”, la lente generale con cui leggere il tutto ed a cui ricondurre il tutto. E questo non perché la crisi climatica non sia abbastanza importante, ma perché crediamo che l’approccio “meta-tematico” sia sbagliato in sé, in quanto da un lato riproduce il vizio della gerarchia delle contraddizioni, finendo con il piegare a se stesso ogni analisi ed ogni pratica dell’obiettivo, e dall’altro perché tende ad escludere o marginalizzare quell’articolazione dell’intervento che è, invece, vitale all’interno di una realtà complessa per riuscire a generalizzare l’azione ed estendere le possibilità di conflitto. Il medesimo discorso può essere fatto in riferimento al tema del reddito. Dentro la crisi economica indotta dalla pandemia il tema del reddito assume un’importanza fondamentale ed è strategico in questo momento potenziare e diffondere i percorsi di sindacalismo di base e di auto-organizzazione di lavoratrici e lavoratori: senza tali percorsi, che si radicano già nei contesti lavorativi, non avremmo gli strumenti di base per poter agire sul versante della crisi economica. Anche in questo caso, però, il reddito non può diventare il meta-tema in cui far confluire il tutto. Certo, attraverso l’espressione “reddito indiretto” possiamo farci rientrare un sacco di cose perché, in fin dei conti, ogni cosa che comporti un onere economico incide sul reddito, ed ogni lotta tesa ad escludere quell’onere si traduce in una battaglia per il reddito indiretto. Ma questa ipertrofia del tema invece di determinarne il potenziamento, rischia di diventarne una patologia, di renderlo più evanescente e meno efficace, tanto più alla luce della oggettiva difficoltà di mettere in campo un’azione dispiegata, concreta ed efficace di pari latitudine. Con l’ulteriore conseguenza di confondere il piano più strettamente rivendicativo con quello più complessivo, piani che, invece, pur all’interno di una relazione organica, dovrebbero assumere luoghi e profili politico-organizzativi specifici. Più che di meta-temi a cui assegnare il compito di ridurre ad un unico concetto una molteplicità di contenuti, avremmo bisogno in questo momento di costruire una prima piattaforma sociale dell’emergenza, che non abbia l’ambizione di riassumere tutti gli obiettivi che soggettivamente vorremmo perseguire, ma di individuare alcuni obiettivi di portata generale che all’interno del contesto contingente possano assumere una funzione propulsiva e creare le condizioni per una reale ed efficace attività di agitazione sociale.

6. “…solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!” (K. Marx — Critica del programma di Gotha)

Nel definire gli obiettivi programmatici di fase è importante tenere sempre presente la visione generale da cui muoviamo e, con essa, l’idea di futuro che vogliamo evocare. Questo non significa perdersi in pedanti descrizioni di una fantomatica “società del domani”, ma scegliere il nostro immaginario, parlare non dell’architettura, ma della proiezione, delle tensioni che disegnano ciò che desideriamo. Non è indifferente ciò che noi scegliamo per evocare un futuro possibile. Ed è proprio sul terreno delle evocazioni che negli ultimi mesi abbiamo assistito ad una particolare parabola del discorso sulla “cura”, che, estendendone il concetto, ne ha fatto, in ultimo, un paradigma generale di definizione della futura organizzazione sociale. Ma che cosa dovrebbe essere la cosiddetta “società della cura”? Il concetto di cura, quando non è riferito allo specifico contesto sanitario, rimanda alla sfera delle relazioni personali, al rapporto particolare che si instaura tra persone che condividono un legame affettivo e sentimentale, un vissuto comune che, per l’appunto, distingue quel rapporto da altri in cui non si determina la stessa condivisione. Ma il medesimo concetto tradotto in un paradigma di organizzazione sociale, che cosa significa? Le esperienze storiche a riguardo non sono affatto incoraggianti, visto che generalmente il “prendersi cura” dei propri cittadini ha costituito il fondamento ideologico dei più beceri regimi totalitari. Il che non è un caso. La “cura” entra nell’intimità delle persone, nelle loro debolezze, nella loro riservatezza, nei loro rapporti di prossimità. Un’organizzazione sociale che si prende cura di noi, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, è un’organizzazione sociale pericolosa, che si assume un compito etico e penetra nelle viscere delle nostre relazioni. Noi non vogliamo una società che ci “ama” o comitati di salute pubblica che “ci vogliono bene”. Noi vogliamo una società solidale, capace di rispondere ai bisogni delle persone e di garantire una vita degna. Noi vogliamo una società di persone libere e uguali, dove la “cura”, intesa come tutela della salute, è garantita da strutture sanitarie avanzate, personale qualificato e da una diversa cultura del corpo e del curare. Una società che ci liberi davvero dal “lavoro di cura” che, come tutti i lavori, è una maledizione anche quando lo svolgiamo per alleviare le sofferenze di una persona cara, e che liberandoci da esso ci dia anche la possibilità di liberare gli affetti dall’oppressione dell’impianto ideologico catto-colpevolista che induce a misurare l’intensità degli affetti sull’intensità del sacrificio. La società dell’armonia generale, dell’amore di tutti verso tutti, in cui ognuno sente il bisogno di prendersi cura di tutti gli altri è una favola, neppure bella, anzi angosciante. Questo perché la vita vera è un’altra cosa: per fortuna in una società per quanto avanzata, per quanto liberata, continueranno ad agitarsi odi e amori, tensioni e incompatibilità, conflitti per cambiare le cose, perché non esiste una fine della Storia ed ogni organizzazione sociale è inevitabilmente oggetto di un costante processo di cambiamento. Ricondurre la visione del futuro che noi desideriamo all’idea di una “società della cura” è una scelta che, a nostro avviso, determina un grave arretramento dell’immaginario ed una torsione della nostra idea di società sul versante etico, sull’imposizione di ciò che la persona deve “provare” nei confronti degli altri, anziché su ciò che la persona “sceglie” di fare per gli altri. Un paradigma che non ha nulla a che fare con una visione materialistica del processo storico e con l’urgente necessità di calare nelle contraddizioni materiali un’efficace e chiara narrazione delle nostre prospettive. Sicuramente ci verrà detto che la nostra interpretazione è una malevola forzatura, e che “società della cura” è solo un modo diverso di rappresentare un’idea di società alternativa, ben descritta nei suoi tratti fondamentali e nei suoi principi generali. Sarà pur così, ma il problema vero che si pone nel proporre un paradigma generale di definizione di un progetto non è nella descrizione del progetto, ma in ciò che quel paradigma è in grado di per sé di comunicare, esprimere e rappresentare, perché è proprio per questo che esso viene scelto e utilizzato. Gli effetti di un’evocazione prescindono dagli intenti di chi l’ha espressa e sono i primi che devono essere valutati, non i secondi. Assumere l’idea della “cura” come il viatico prefigurativo della società che vorremmo, come la chiave di definizione generale dei suoi rapporti interni e dei suoi assetti organizzativi, ha implicazioni rilevanti perché ne modifica radicalmente la rappresentazione, portandola dal campo materiale delle sue strutture al campo “etico” delle relazioni e delle responsabilità individuali. Ciò risulta, peraltro, particolarmente pericoloso proprio all’interno del contesto che stiamo vivendo: sia perché la trasformazione del concetto di “cura” in un paradigma generale di organizzazione sociale finisce con il produrre una retorica che depotenzia la cura vera di cui avremmo bisogno dentro una crisi sanitaria, che va ben oltre la pandemia ed attiene al sostanziale collasso della sanità pubblica; sia perché in questo momento avremmo bisogno di un’operazione esattamente inversa per fronteggiare il dispositivo ideologico dominante che caratterizza questa fase, quello dello Stato-padre che entra nelle condotte personali e private dei “suoi” cittadini, dà “vivamente” consigli, ordina comportamenti in base ai quali decide se punire o premiare, individualizza le responsabilità e, con esse, le colpe. Noi non ci sentiamo né mistici, né idealisti: cerchiamo, per quanto possibile, di restare ancorati a quella pratica materialistica che pensiamo necessaria per perseguire una trasformazione radicale, quindi rivoluzionaria, delle nostre condizioni di vita. Crediamo che dentro le urgenze imposte dalla crisi non sia possibile arretrare l’approccio teorico, i criteri di analisi ed i paradigmi delle proposte su versanti che ci riportano indietro nel tempo. Allo stesso modo pensiamo che dentro le urgenze della crisi dobbiamo liberarci dal complesso della mimetizzazione, che appare strumento più facile di sedimentazione del consenso ma che, ad oggi, si traduce invece nella marginalizzazione e nel rifluire dei contenuti. Nonostante le enormi difficoltà che troviamo sul terreno, mai, quantomeno nella storia recente, è stata così diffusa la consapevolezza delle iniquità strutturali del capitalismo, della capacità distruttiva del suo sistema economico e della precarietà che esso ci impone. Il problema vero è l’assenza di un’alternativa credibile, anzi, tanto credibile da accettare il rischio personale e collettivo di una rivolgimento generale. Come ricostruire una simile alternativa è una domanda che non può avere una risposta perché essa è un processo che si descrive nel suo stesso compiersi. Ciò che però possiamo e dobbiamo chiederci è quale può essere il nostro ruolo all’interno di quel processo. Noi pensiamo che per contribuire a quel processo sia necessario ripartire dalle fondamenta, recuperare la capacità di diffondere una visione chiara, individuabile e divulgabile della nostra progettualità e nel contempo proposte chiare, individuabili e divulgabili relative ad obiettivi contingenti ed immediati dettati dal contesto specifico all’interno del quale andiamo ad agire. Visione generale e obiettivi programmatici di fase, agitazione sociale e “propaganda”: appunto, le fondamenta.

7. UNO STRUMENTO PROGRAMMATICO

La “realtà aumentata” della pandemia, dove i processi in atto sono estremizzati e dotati di un’eccezionale evidenza, offre tutte le condizioni per avviare la ricostruzione di quella interazione tra visione generale e piano programmatico di fase senza la quale il nostro agire rischia di restare inefficace o, comunque, di disperdersi senza sedimentare quel nuovo accumulo di lotte, idee e relazioni, di cui abbiamo urgente bisogno. Alle polarizzazioni che la crisi inevitabilmente produce è necessario offrire una lettura, una chiave di interpretazione capace di collocare le contraddizioni nella loro dimensione sistemica, cioè nella struttura materiale, economica e politica che le produce. Nel contempo, però, abbiamo bisogno che da quella lettura emergano indicazioni di azione concrete, praticabili e diffondibili. Il che, a sua volta, richiede la capacità di assumere fino in fondo la straordinarietà del contesto che stiamo vivendo. La pandemia non ha solo sconvolto la nostra quotidianità, ma ha anche generato una dimensione “extra-ordinem”, dentro la quale le libertà fondamentali sono state travolte e si è consumata una rottura senza precedenti delle garanzie costituzionali e del relativo impianto culturale e normativo. Le misure di distanziamento sociale, la limitazione della libertà di circolazione ed il tracollo dei processi aggregativi producono una vasta ed ulteriore frammentazione del legame sociale a cui corrisponde una profonda difficoltà di tenere aperti ed attivi anche i percorsi organizzativi più elementari. La straordinarietà di tale condizione non possiamo rimuoverla, o estraniandola dal dibattito o declinando date e appuntamenti nel medio periodo sperando che per quel momento la situazione si sia risolta. Anche laddove alcune misure di limitazione della libertà di movimento venissero meno, la condizione di straordinarietà continuerà a protrarsi a lungo, alimentata dai disequilibri prodottisi sul terreno economico, sanitario, aggregativo e normativo. All’interno del contesto “extra-ordinario” della crisi crediamo che sia strategico aprire spazi di convergenza su obiettivi comuni. Un passaggio che a nostro avviso non si realizza semplicemente attraverso un potenziamento dei singoli percorsi specifici di attivismo sociale o attraverso la chiamata degli uni al concorso degli altri nelle iniziative messe in agenda. Allo stesso modo, per le ragioni che abbiamo già detto, non crediamo che tale passaggio possa maturarsi semplicemente facendo convergere più contenuti in un unico meta-tema. Pensiamo, invece, che sia necessario riflettere sull’elaborazione di uno strumento programmatico di fase, articolato in alcuni obiettivi che valutiamo come prioritari, non necessariamente perché lo siano in assoluto o perché essi debbano sovrapporsi agli specifici obiettivi individuati all’interno dei diversi campi di intervento, ma perché sono quelli che nell’immediato colgono i bisogni urgenti che emergono o possono emergere dal corpo sociale. Una sorta di piattaforma da condividere nelle azioni e nelle iniziative anche quando queste non attengono direttamente agli obiettivi in essa contenuti. Una piattaforma, cioè, in grado di costituire un riferimento stabile, di capitalizzare le azioni diffuse nei territori, di consentire l’individuabilità dei percorsi che ad essa si richiamano, individuabilità a cui sono strettamente connesse le sue potenzialità espansive. Non vogliamo in questa sede entrare nel merito specifico degli obiettivi che a nostro avviso dovrebbero comporre tale strumento programmatico. All’interno della nostra discussione abbiamo, tuttavia, individuato alcune traiettorie che pensiamo siano importanti sia in sé, sia per gli spazi di azione e condivisione sociale che esse possono garantire.

– Reddito inteso come un ammortizzatore sociale universale in grado di garantire la continuità di liquidità a chi per scelta o necessità si ritrova a dover passare da un impiego all’altro, a chi è senza lavoro o a chi rientra nella categoria dei “lavoratori poveri”. Reddito vuol dire dare diritti e dignità a tutta quella fascia di lavoratori autonomi, precari e non garantiti che oggi più di altri sta subendo la crisi. Per finanziare una politica di redistribuzione della ricchezza non serve più solo lottare per una migliore finalizzazione delle risorse pubbliche, ma bisogna prendere i soldi da chi ne ha in abbondanza e da chi da questa crisi ha tratto profitto: tassare i giganti digitali e una patrimoniale sui grandi capitali finanziari e industriali. Infine, non può esistere un’equa politica sul reddito senza l’introduzione di un salario minimo che sia indipendente dal tipo di lavoro e dal relativo inquadramento contrattuale.

– Sanità pubblica, universale, gratuita, di qualità ma soprattutto territoriale e di prossimità in modo da uscire da un’idea di cura ospedalocentrica. Assunzione di nuovo personale medico-sanitario, investimento, gestione e controllo pubblico sulla ricerca medico-scientifica e una battaglia serrata in grado di rimettere in discussione la titolarità dei brevetti e la proprietà intellettuale dei farmaci, affermandone invece la libera produzione. Farmaci come i vaccini dovrebbero essere considerati un bene comune e quindi sottratti al regime della proprietà e del profitto.

– Scuola e istruzione non come difesa di una “sacra e intoccabile istituzione” ma come la capacità di affrontarne i problemi strutturali a partire dall’eliminazione delle classi-pollaio, da una messa in sicurezza degli edifici scolastici, fino all’equiparazione degli stipendi di tutto il personale con quelli europei, passando per la sistematizzazione delle mille e assurde graduatorie e del superamento dello status di precari di molta parte del personale.

– Ambiente, cessare di finanziare con soldi pubblici le multinazionali del fossile, tassare le industrie inquinanti, denunciare/disvelare le operazioni di greenwashing e affrontare il problema del trasporto pubblico nella prospettiva di una mobilità ecosostenibile, sicura e gratuita.

– Garanzia di luoghi e percorsi di aggregazione, un problema già presente soprattutto dopo le strette securitarie messe in atto prima da Minniti e poi da Salvini, che si è drammatizzato durante la crisi pandemica. La socialità libera, spontanea, autogestita è stata completamente spazzata via, criminalizzata a favore di una “socialità” relegata e obbligata a svolgersi dentro luoghi perimetrati da buttafuori e telecamere ed esclusivamente deputati al consumo e al profitto privato. La capacità di ricostruire un legame sociale, passa anche per il recupero di un vivere libero a partire dalle più semplici quanto essenziali dimensioni ludico-conviviali, soprattutto per la fascia giovanile. Per questo è necessaria una delegificazione degli ambiti di aggregazione in favore di una loro maggiore autonomia.

Ovviamente non si tratta di obiettivi “nuovi” o che non siano già stati trattati nelle diverse occasioni di confronto e di dibattito, ma il fatto di comporli all’interno di un unico strumento programmatico condiviso, di tradurli in una vera e propria campagna che si radica nei territori e negli obiettivi lì praticabili, di costruire una sinergia nelle azioni che abbia una reale capacità di divulgazione e di individuazione dei punti di riferimento, potrebbe produrre un salto di qualità. Ciò anche perchè gli obiettivi che in un determinato momento potrebbero risultare più trainanti degli altri, trascinerebbero con sè anche il resto della piattaforma, la sua conoscibilità e la sua diffusione. Da questo punto di vista crediamo, ad esempio, che tutto il tema della sanità e dei vaccini, diversamente a quanto si è verificato fino in questo momento, possa e debba diventare un tema prioritario di precipitazione delle azioni e del conflitto nelle prossime settimane, vista anche l’ampia potenzialità di condivisione sociale sia dei contenuti, che delle pratiche.

Centri Sociali Marche

Gennaio 2021

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