Block Out
La solidarietà alla resistenza palestinese libera uno spazio di possibilità per il protagonismo sociale
Lunedì 22 settembre centinaia di migliaia di corpi si sono presi le strade facendo saltare la routine quotidiana della produzione e del consumo nelle nostre città. Una potenza collettiva che in Italia non si vedeva da almeno quindici anni ha bloccato la logistica del profitto e della merce. Dal nord al sud del Paese è stata sabotata l’economia del genocidio perpetrata dallo stato israeliano, sostenuta e foraggiata dai suoi accoliti occidentali.
L’iniziativa messa in campo dalla Global Sumud Flotilla e poi rilanciata dai camalli genovesi, si è moltiplicata dando vita ad uno sciopero generale di natura politica che da anni non si vedeva nel nostro Paese. La capacità di autorganizzazione e di azione del sociale ha fatto ciò che le istituzioni internazionali e gli stati europei, in primis quello italiano, hanno scelto di non fare, rendendosi complici e persino registi degli ingranaggi del genocidio.
Le piazze hanno parlato chiaro, se la legge è quella del più forte e del più ricco, l’illegalità di massa diventa una necessità. Se il profitto genera l’accumulo di cadaveri in serie, rompere i suoi ingranaggi è un dovere.
I porti sigillati a Genova, Livorno, Trieste, Venezia, Marina di Carrara, Civitavecchia, Bari, Napoli, Salerno, Palermo, Catania, e Ancona; con lo scalo livornese ancora oggi presidiato per impedire l’attracco di una nave americana carica di armi verso Israele. Le autostrade e le tangenziali occupate a Bologna, Firenze, Pisa, Torino, Cosenza; le stazioni bloccate a Roma come a Milano e Torino; le arterie principali della mobilità urbana andate in tilt per i cortei oceanici nei grandi centri come a Padova e Catania, a Pescara come a Cagliari. Nelle oltre ottanta città dove sono stati lanciati appuntamenti, manifestazioni non consuete si sono svolte in centri come Pavia, Trento, Potenza, Ravenna, Terni, a Bari fino al consolato israeliano. Un’astensione massiccia dal lavoro nelle scuole, negli uffici, nelle fabbriche hanno mostrato un’intelligenza collettiva straordinaria. Una capacità di coniugare pratica dell’obiettivo con la partecipazione di massa.
Fuori da avanguardie, ritualità e spettacoli prestabiliti. Lo sciopero è stato vero come i danni che ha inflitto, perché uno sciopero che non si pone l’obiettivo di trasformare una moltitudine in una soggettività contundente, di sostituire la testimonianza con la resistenza, di trasformare l’impotenza e la solitudine individuale in potenza e rabbia collettiva non ha alcun senso d’esistere.
In alcune città non sono mancate scene di repressione poliziesca con idranti, lacrimogeni e cariche come a Venezia, Bologna, Brescia e Milano: una repressione che, tuttavia, ha prima di tutto mostrato la propria impotenza difronte alla determinazione delle piazze.
Va dato atto al sindacato USB di aver agito uno sciopero politico che si è aperto alle diversità e alla cooperazione di molte e molti. Il contrario della grave scelta della CGIL di spezzare l’unità delle lotte indicendo il solito sciopericchio tre giorni prima della data di mobilitazione nazionale, con il chiaro intento di distinguere i buoni dai cattivi, i ragionevoli dai massimalisti, i sostenitori della pietas umana dai presunti supporter dei terroristi. Nulla che stupisca, sia chiaro. Le articolazioni del così detto centro-sinistra e del suo “campo largo” agiscono sempre e puntualmente come i difensori dell’ordine, dello status quo. Puro conservatorismo infarcito di astratta morale e tante lacrime di coccodrillo.
Scendere in piazza contro il massacro in terra di Palestina vuol dire opporsi al regime di guerra che sta destinando l’Europa a una scellerata politica di riarmo. Non solo, ma anche ad una competizione tra nazioni su chi riesce a depauperare ulteriormente i residui di stato sociale per destinare le risorse pubbliche alla guerra e alle compagnie che da essa ingrassano i propri profitti. Lottare a fianco del popolo palestinese vuole dire lottare contro un futuro di guerra, vuol dire difendere la scuola e la sanità pubblica, l’ambiente e il territorio, i servizi sociali e il welfare, i redditi e i salari.
Va però affermato con forza che è grazie alla resistenza palestinese, a chi sul campo e in armi difende la propria terra dall’Idf e dai suoi coloni, che è stata possibile la giornata di mobilitazione di lunedì. Questa massa critica e contundente che è scesa in piazza la dobbiamo a loro, ai gazawi, a chi lotta e resiste. E di questa potenza collettiva dobbiamo averne cura, perché questo patrimonio collettivo non sia piegato agli interessi politico-istituzionali di nessuno.
La Palestina non è un campo di propaganda elettorale, è un campo di battaglia politico, dove sarà fondamentale per insistere e continuare, la tutela dell’autonomia dei movimenti, anche in vista delle prossime scadenze di lotta. L’offensiva su Gaza City prosegue, contrastata da operazioni frontali di guerriglia da parte del comando congiunto delle fazioni della resistenza. La Flotilla è stata nuovamente attaccata, e sappiamo che nei prossimi giorni la situazione potrebbe precipitare ancora e dobbiamo essere pronti a rioccupare le strade e ad aprire e reggere un nuovo rapporto di forza. Non solo, la manifestazione nazionale a Roma del 4 ottobre, e la contestazione alla partita Italia-Israele che si terrà ad Udine il 14 ottobre sono le prossime tappe per moltiplicare la potenza che si è espressa nella giornata del “blocchiamo tutto”.
La Palestina e l’opposizione alla guerra ci impongono di continuare a tenere le strade ed a resistere.
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#22S Lo sciopero generale e la mobilitazione studentesca nelle Marche