AmbienteApiIn evidenza

La raffineria API di Falconara tra continue emissioni, nuovi processi, crisi climatica e disastro ambientale

Un approfondimento a cura del Laboratorio Falkatraz alla vigilia dell’apertura di uno dei procedimenti penali a carico di Api

Dopo il rinvio a giudizio del marzo 2020 si apre domani, giovedì 26 gennaio, il processo contro la raffineria Api per le ipotesi di reato di getto di cose pericolose, inquinamento ambientale e violazione di prescrizioni in materia ambientale. Sul banco degli imputati l’amministratore delegato Giancarlo Cogliati e il responsabile dell’ufficio ambiente e sicurezza Giovanni Bartolini. Secondo la procura i vertici dell’Api sarebbero responsabili di diverse inadempienze, relative al periodo 2013-2018, che avrebbero contribuito a peggiorare la qualità dell’aria nella zona attorno all’impianto. Le numerose emissioni inquinanti, che eccedevano lo storico caratteristico di una città come Falconara, area (ex!) AERCA (area ad alto rischio di crisi ambientale) e Sin (sito di interesse nazionale da bonificare) dal 2002, sembravano provenire da ripetuti incidenti e malfunzionamenti avvenuti nella fase di attracco allo stabilimento delle navi cisterna, come nella fase di carico e scarico del greggio. Alla faccia delle BAT, la presunta applicazione delle migliori tecnologie disponibili, pare invece che si risparmiasse sui costi di manutenzione ed investimento per tirare a produrre.

Le indagini erano partite in seguito alle segnalazioni dal basso ed agli esposti, dal 2015, dei cittadini falconaresi raccolti intorno al nuovo comitato trasversale Malaria, che ha rappresentato, lungo lo scorso decennio, il momento più alto di dissenso locale, ben oltre il bacino consueto dello zoccolo duro dei comitati cittadini storici e degli attivisti di movimento. Del resto non si tratta del primo procedimento penale in cui il petrolchimico sia incappato nella sua pluridecennale attività. Ricordiamo a titolo esemplificativo come lo scorso luglio sia arrivato a sentenza definitiva, con due condanne, anche se parzialmente riformate, e un’assoluzione, il processo d’appello per il decesso di Francesco Fiore. Nel giugno 2013 l’operaio di una ditta appaltatrice esterna perse la vita in ospedale dopo un’agonia di venti giorni, in seguito a un incidente sul lavoro nello stabilimento di Falconara. L’accusa principale verteva sul fatto che i lavori su tredici valvole di sicurezza dell’impianto a vapore sarebbero stati eseguiti con lo stabilimento in funzione, anziché fermo, con il rischio, quindi, che avvenissero incidenti dovuti alla fuoriuscita di getti. Ancora una volta è evidente come il dogma della produttività a tutti i costi pieghi ogni principio di sicurezza, o di mero buonsenso. Nella sentenza di primo grado, in cui si contestava la cooperazione nell’omicidio colposo, erano stati sei gli imputati a processo, tre dei quali figure intermedie (il responsabile del settore manutenzione, il responsabile del reparto ispezione e il dirigente del settore produzione), assolti. Gli altri tre, l’amministratore delegato dell’Api raffinerie anconetana Giancarlo Cogliati, Pierfilippo Amurri, dirigente del settore operazioni, e Antonio Palma, legale rappresentante della Ferplast (per la quale lavorava Fiore), condannati a due anni. Nella sentenza definitiva è stato dichiarato il non doversi procedere per la violazione delle norme sul lavoro, essendo intervenuta la prescrizione, e a Cogliati e Amurri sono state concesse le attenuanti generiche in regime di equivalenza con riduzione della pena a otto mesi per Cogliati e uno ad Amurri e con il beneficio della non menzione. Assolto Palma, titolare della ditta esterna.

E ancora ricordiamo la sentenza di appello del luglio 2013 che ha stabilito la responsabilità e la condanna dei vertici e dei responsabili di API raffineria di Ancona SpA (1 anno e 2 mesi) per la morte di altri due lavoratori, Ettore Giulian e Mario Gandolfi, nell’incendio del 25 agosto 1999, quando un rogo con fiamme alte un centinaio di metri e visibile a chilometri di distanza svegliò la Città alle 5 di mattina. La Corte d’Appello di Ancona aveva allora ribaltato la sentenza assolutoria di primo grado che condannava il responsabile civile API al risarcimento in solido dei danni in favore delle Parti civili. Da questo lungo stillicidio di inquinamento ambientale, danni sanitari, morti operaie, sfilato negli anni dentro le aule di tribunale non possiamo non constatare la lunghezza dei termini dei procedimenti, i tempi della magistratura tali sono, e l’esiguità delle condanne a fronte dei fatti avvenuti.

Del resto l’Anonima Petroli Italiana è ad oggi uno dei maggiori gruppi privati a livello nazionale nel settore energetico che copre l’intera filiera dell’economia fossile. Non si tratta più della piccola raffineria di provincia cresciuta nel boom del patto fordista capitale/lavoro, ma di un’autentica multiutility dell’economia fossile, che unisce i tratti del capitalismo familistico tradizionale con quelli tipici delle rapacità multinazionali. Un autentico sistema di potere tentacolare ben rappresentato dallo scandalo mediatico dell’agosto 2020 durante la pubblicazione delle telefonate intercorse tra l’AD Api e l’ex Sindaco di Falconara Brandoni, ora Assessore regionale di Acquaroli, in cui si apostrofavano i carabinieri del NOE come dei “rompicoglioni”, “L’Italia un paese di merda” e i cittadini che segnalavano le esalazioni dalla raffineria delle “teste di cazzo”!

Eppure c’è qualcosa oggi che pare scalfire il muro di gomma di una sorta di immunità. Intanto la recente chiusura delle indagini preliminari ‘Oro nero’ della scorsa estate, in merito all’ultimo incidente rilevante del 2018, che si somma e aggrava la vicenda giudiziaria in corso. Nell’aprile di quell’anno si verificava l’inclinazione del tetto galleggiante di uno dei serbatoi più grandi d’Europa, il TK61, per una capacità di portata pari a 160.000 metri cubi di petrolio greggio, provocando la fuoriuscita di una nuvola di gas idrocarburici e la conseguente percezione di forti e prolungati miasmi da parte della popolazione della zona, costretta ad un improvvisato regime di lockdown, oltre al serio pericolo per la sicurezza derivante dal rischio di esplosioni. Dopo l’invito del Sindaco Brandoni ad “arieggare” i locali, le denunce, allora divenute di massa, furono centinaia. Con Oro nero si moltiplica il campo accusatorio, ora di estrema rilevanza: ‘disastro ambientale’ ed altri reati concernenti la normativa ambientale e quella contro la pubblica amministrazione, segnatamente i reati di abuso d’ufficio, rivelazione di segreti d’ufficio e istigazione alla corruzione, violazione della normativa sulla gestione degli impianti a rischio di incidente rilevante e responsabilità amministrativa degli enti nei confronti della società Api, nonché le reiterate violazioni delle prescrizioni e dei limiti di emissione con riferimento alle emissioni in atmosfera, agli scarichi idrici, alla gestione dei rifiuti interni, alla gestione dei malfunzionamenti e degli eventi incidentali. Oltre a crescere il numero di imputati, ben 18, per la prima volta si coinvolgono personalità anche esterne alla raffineria, nello specifico l’ex direttore generale dell’ARPAM Giancarlo Marchetti. La reiterazione e l’ampliamento delle indagini oltre e successivamente l’incidente del 2018, in questi successivi quattro lunghi anni, hanno messo in luce innumerevoli altri episodi minori, rilevanti dal punto di vista penale, ma soprattutto del danno ambientale.

Tutto questo mina l’immagine costruita ad arte di efficientismo responsabile di un petrolchimico all’avanguardia europea in termini di sostenibilità ambientale: la copiosa mole di attività d’indagine, il contributo di consulenti e tecnici, nonché i sopralluoghi e campionamenti analitici, le osservazioni dirette, le escussioni di persone informate sui fatti, saranno finalmente desecretate e di pubblico dominio. Tutto questo ci racconta una diversa narrazione del passato, e del presente, infarcita di atti di “imprudenza” e “negligenza”, “sistematica violazione”, incidenti “principalmente provocati dallo stato di deterioramento degli impianti”, “conflitto d’interessi”, “ingiusto vantaggio patrimoniale”, condotte “sorrette dalla volontà di risparmiare sugli ingenti costi per l’ispezione, la manutenzione e l’adeguamento degli impianti in questione e di non compromettere l’attività produttiva, rallentando i processi di lavorazione”. Eppure il fatturato netto di tutto il gruppo Api supera nel 2021 i 4560 milioni di euro. Eppure solo 5 anni fa ha inglobato la rete nazionale di distribuzione di carburanti Total/Erg, strappando così il primato nazionale ad Eni per capillarità di distribuzione sul territorio nazionale (oltre 5000 stazioni). Eppure nel dicembre 2022 il gruppo IP/API ha acquisito dalla Esso Italia tutti i suoi assets e attività relative ai carburanti e alla raffinazione, compresa la totalità delle attività di vendita di carburanti di Esso in Italia, il 75% della Raffineria SARPOM di Trecate (provincia di Novara), di cui IP deteneva già il resto dell’azionariato, la titolarità dei depositi di Genova, Arluno e Chivasso, quella di Engycalor Energia Calore, che controlla il deposito di bitumi di Napoli e si occupa di vendite a clienti business, e il 12,5% della società Disma, che gestisce il deposito di carburante aereo dell’Aeroporto di Malpensa (operazione che consente di raddoppiare la raffinazione da circa 5 a quasi 10 milioni di tonnellate/anno).

Due costanti emergono da questa lunga scia di inchieste sul business del fossile a Falconara. L’interesse per la massimizzazione dei profitti, la continuità produttiva, la crescita economica illimitata, il vile denaro, su tutto. E a suo corollario, l’inottemperanza e la violazione delle decine di prescrizioni con le quali è stata rilasciata l’AIA, l’Autorizzazione Integrata Ambientale, nel maggio 2018, ad un mese dall’incidente del serbatoio TK61, come dei precedenti decreti di concessione. Un procedimento amministrativo per sua natura autoassolutorio, che tutto contiene, ingloba e fa quadrare in un kafkiano castello burocratico, sia dal punto di vista degli attori in gioco che dei cicli produttivi, salvo il suo punto di sospensione e negazione. Un crinale critico che può essere spezzato, a maggior ragione oggi, al tempo degli scudi penali che per decreto governativo assicurano le imprese fossili dalle ingerenze della magistratura, solo calando le vicende dei palazzi di giustizia dentro il vivo delle lotte.

Urge commutare il discorso giudiziario in controinchieste dal basso che tengano aperta e amplifichino la vertenza pubblica sulla dismissione degli impianti, la sospensione delle autorizzazioni, le dovute bonifiche del territorio e le percorribili vie d’uscita dal fossile. Come lo scorso decennio falconarese era stato caratterizzato dal fenomeno delle segnalazioni dal basso e dalla localizzazione del consenso, dal 2019 ad oggi con la ricostituzione del Laboratorio Falkatraz e la prosecuzione dei movimenti contro il capitalismo estrattivista come Trivelle Zero Marche, le vertenze ambientali e sanitarie delle “aree di sacrificio” in resistenza si sono saldate con i movimenti di protesta globali per la transizione ecologica e la giustizia climatica, Per il Clima Fuori dal Fossile e Friday for Future su tutti. Sarà, parafrasando Slavoj Zizek, più facile immaginare la fine del mondo o la fine del capitalismo?

Laboratorio Falkatraz Falconara