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Urbiquità. Intervista a Lorenzo Tripodi

Sul suo ultimo libro ‘Urbiquità. La città ovunque’ (AgenziaX, 2024)

Il collettivo del Csa Officina Trenino di Porto San Giorgio si occupa da anni di questioni urbane, soprattutto locali, ed ora ha invitato Lorenzo Tripodi, architetto, urbanista, videomaker e autore del saggio “Urbiquità” per i tipi di Agenzia X. Tra i libri che abbiamo presentato sul tema è forse il saggio più teorico, ha il merito di costruire un quadro complessivo delle dinamiche della città contemporanea, utilizzando più armamentari teorici, la sociologia urbana ma anche gli studi sui media e la semiotica. L’occasione della presentazione è un tentativo di alzare il tiro e rivelare un quadro d’insieme che colga diverse dinamiche apparentemente disgiunte, ma che invece agiscono congiuntamente nel corpo sociale e nella forma urbana, per capire come è cambiata la città sotto i colpi del semiocapitalismo.

In questa intervista, condotta poco prima della presentazione, abbiamo chiesto a Lorenzo d’illustrare per sommi capi i sui studi.

OT: Quando ci siamo conosciuti a Firenze negli anni 90 eri Lorenzo degli Ogino, il collettivo di video maker Ogino Knauss (oginoknauss.org), parlaci del tuo percorso: come si è innestato il lavoro con larte, il cinema e i video, con la sociologia urbana.

LP: Il mio percorso è sempre stato a cavallo di due mondi, forse perché sono un gemelli, magari non c’entra nulla ma illustra in maniera un po’ divertente la situazione. Studente di architettura a Firenze, comincio a vivere la città scontrandomi con il suo corpo fisico, poi l’occupazione dell’università, la pantera negli anni ‘90. Da un altro punto di vista ho l’aspirazione, da sempre, ad avere un percorso più artistico, lavorando con la musica, col cinema e la creazione del laboratorio di cinema mutante all’interno dello spazio di un centro sociale occupato della città (il CPA Firenze Sud, n.d.O.T.).

Questi due percorsi si sono sviluppati parallelamente, quindi ho ragionato sulle trasformazioni e i conflitti della città con la prospettiva del filmmaker e con il punto di vista più analitico dello studente di architettura che in seguito diventa ricercatore. A un certo punto questa dicotomia è andata in cortocircuito, è stata una sorta di epifania rendermi conto che i processi di cui mi occupavo, quelli di produzione dello spazio e quelli di produzione delle immagini andavano a convergere sempre di più, a diventare sempre più simili, fino a portarmi ad analizzare le trasformazioni della città proprio nella chiave interpretativa dei processi di trasformazione dell’immagine.

Quindi ho lavorato su questo concetto della città cinematica, dell’urbanismo cinematico, che è un’urbanistica che guarda alla città degli ultimi anni, in contrapposizione con quello che era il modello fordista, industriale. Negli anni del modernismo la città era improntata sul modello della fabbrica fordista, la linea di produzione e la separazione degli spazi funzionali della città ricalcava un po’ la linea di produzione della fabbrica. Il mio tentativo di costruire una teoria della città cinematica è l’ipotesi che la città contemporanea (non più tanto contemporanea, ma quella in cui ho cominciato a muovermi) ricalcava piuttosto il modello della produzione hollywoodiana, della timeline, della linea di montaggio, in cui l’aspetto più importante della produzione urbana era quella di produrre immagini, di organizzare il discorso delle immagini.

OT: Noi siamo abituati a pensare che la città non sia un medium, invece a quanto pare si comporta come tale. Oltretutto così descritta sembra essere un modello sorpassato, una fase. Il libro parla di Firenze, Berlino e New York, luoghi in cui hai vissuto e studiato negli ultimi 30 anni, come altrettanti esempi di urbanistica verticalee di logistica della percezione, quest’ultimo un concetto che prendi da Paul Virilio.

L’immagine è veicolata dal palazzo iconico, dal cartellone pubblicitario, dallimmaginario locale trattato come una cosa da impacchettare e vendereSono alcuni dei diversi modi di intendere il concetto dimmagine che illustri nel libro. Sembra tuttavia che siamo entrati in una nuova fase: il controllo strategico delle immagini ora passa direttamente attraverso lo smartphone.

LT: Appunto, il libro che ho scritto è un libro tardivo, avrebbe dovuto essere probabilmente scritto vent’anni fa, alla pubblicazione della mia tesi di dottorato, in cui mi ero occupato di spazio pubblico e di come si è trasformato anche di fronte all’incombere delle nuove economie simboliche, creative, e delle tecnologie della comunicazione. In realtà poi ho continuato ad attraversare i paesaggi urbani, appunto muovendomi a vivere a Berlino, lavorando in diversi settori che hanno a che vedere con la città, per cui la prospettiva è cambiata in maniera piuttosto netta.

Dall’inizio la mia attenzione si era posta sulla dimensione verticale, ossia l’idea che la produzione dello spazio urbano si sia spostata dalla dimensione logistica dello spazio orizzontale, cioè dove metto le merci, dove costruisco, dove abito, alla dimensione verticale, una dimensione visiva: l’idea della città come sistema di schermi, quindi la pubblicità, la visibilità, gli eventi temporanei, i festival. La racconto in un ventennio di evoluzione che va dagli anni ‘70 fino al 2000, in cui diventa sempre più importante conquistare l’immagine dei luoghi, esibire il brand, fare marketing attraverso la produzione d’immagini, attraverso gli eventi temporanei e la movida, dove quindi spostare creativi ed eventi nei contesti spaziali diventa sempre più importante.

Mantenere il controllo sulle superfici espositive è quello che io ho chiamato spazio pubblico come space of exposure. Spazio di esposizione in inglese rende più il senso di esposizione fotografica, ovvero una città che funziona come un set cinematografico. Sostanzialmente l’importante è mostrare, esibire i propri brand, valorizzare.

Ad un certo punto la città cinematica è stata… non dico travolta, ma sicuramente trasformata in maniera molto forte da un ennesimo processo: il fatto che gli schermi, l’articolazione di superfici attraverso cui passano i messaggi, non è più necessariamente la cartellonistica stradale, la vetrina del negozio in centro, il presidiare spazi chiave, ma diventa estremamente importante anche mantenere il controllo su quelli che sono i canali digitali, la diffusione delle immagini.

In un certo senso avviene questo passaggio drastico in cui lo spazio pubblico comincia a diventare meno rilevante rispetto alla possibilità di avere interazioni pubbliche nel web. Lo youtuber che lavora dalla sua cameretta riesce a influenzare il discorso pubblico, idem la ditta che non ha nessuna struttura ma che vende ovunque, semplicemente perché possiede una certa immagine, è il modello Nike.

Il modello Nike non esiste, è un logo che assembla cose prodotte altrove, questo non significa che la produzione fisica e materiale non sia più importante, ma che viene completamente spinta dietro un meccanismo di controllo dei flussi d’immagine, giungendo alle piattaforme di oggi. Quindi l’ultima parte del libro si dedica proprio a questo aspetto, al Platform Urbanism, che è un riflesso urbanistico della Platform Economy, della nuova concentrazione di potere e di capacità di trasformazione e di controllo che deriva dalle piattaforme. Queste vengono da situazioni estremamente diverse, come racconta benissimo Cory Doctorow, c’è chi è nato per costruire hardware come la Apple, chi per distribuire i libri come Amazon, per distribuire informazioni come Google, ma alla fine sono diventati tutti dei sistemi ibridi, in grado di controllare una quantità enorme di potere, semplicemente attraverso l’effetto di rete (*), che si riflette poi nella città, esistendo fisicamente.

Anzi tutto questo ha effetti drammaticamente e fisicamente oppressivi, tuttavia, i modi in cui le città si trasformano dipende molto più dalle strategie di una corporation che ha sede nella Silicon Valley e il conto in banca alle Cayman piuttosto che dalle decisioni che noi prendiamo sul luogo. Perché appunto, è Airbnb a trasformare il mercato della casa nelle nostre città, è Uber ad avere un impatto sulla mobilità nelle città e così via.

*Il network effect o effetto rete è il processo per cui ogni nuovo utente di un prodotto o servizio aggiunge valore al servizio stesso. Di converso è anche il meccanismo per cui è difficile uscirne. Di qui il concetto di enshittification, termine inventato da Cory Doctorow: raggiunta una massa critica, le piattaforme peggiorano il servizio volutamente sapendo che gli utenti non hanno alternative, (n.d.O.T.)

O.T.: La storia dello streetartist Blu, che fa cancellare il proprio murale a Berlino, è ricostruita nel libro come esempio di una possibile resistenza. Ma la classe creativa, la creatività urbana, in questo processo risultano sempre sfruttate. La sussunzione opera vittoriosamente su tutto, i graffiti come altri segni dal basso sono stati riassorbiti nel sistema e non da ora.

Potrebbe essere deprimente considerare che, volenti o nolenti, lessere creativi, costruire immaginario, contribuisce al processo di sussunzione invece che a generare lo spirito critico atto a contrastarla. C’è uno spiraglio?

LT: E’ un nodo dolente. Sicuramente ci ho messo molto di più a scrivere le pagine di conclusione cercando disperatamente qualcosa di propositivo, piuttosto che le 250 pagine precedenti, raccontando la catastrofe in cui siamo andati a infilarci. Indubbiamente è uno scenario abbastanza fosco, lo vediamo. Con l’accelerazione che c’è stata nell’ultimo periodo, questi soggetti, che alla fine si riducono ad una casta di oligarchi psicopatici, hanno in mano la maggior parte di tutto questo.

Una delle cose che racconto nel libro é il processo continuo in cui la produzione sociale, collettiva, finisce per venire risucchiata e andare ad arricchire questi fortissimi meccanismi di estrazione di valore.

E’ interessante la storia di Blu perché in quanto artista che riceve una reputazione e un successo nella strada, ha il coraggio di fare un gesto: cancellare i suoi pezzi più famosi. Il graffito più iconico di Berlino viene cancellato dal suo stesso autore ed è sicuramente un gesto di una potenza artistica enorme, che insegna qualcosa: dobbiamo avere il coraggio di riprenderci… di mettere il granello di sabbia nell’ingranaggio. E’ possibile sottrarci alle piattaforme? E’ molto difficile smettere di avere un’audience di migliaia di persone su Facebook, sapendo che purtroppo quello che tu fai e produci va a nutrire quel meccanismo, allo stesso tempo è estremamente masochistica l’idea di sottrarsi, di venirne fuori. Secondo me è necessario farlo a questo punto, assolutamente. Io vengo da una generazione che ha fatto i primi Hack-It**, che ha cominciato veramente a cercare di costruire un’infrastruttura autonoma orizzontale che fosse indipendente. Ad un certo punto abbiamo mollato il colpo, dicendo che non c’era più bisogno, il mainstream ci dava strumenti accessibili a tutti, usiamoli.

Credo che questi ultimi vent’anni ci hanno insegnato che non funziona così, è necessario tornare a rivendicare l’infrastruttura comune, come dice ancora una volta Cory Doctorow: “seize the means of computation”, parafrasi del riprendersi i mezzi di produzione marxista. Secondo me è necessario tornare a rivendicare la proprietà collettiva dei mezzi di produzione che in questo momento sono sostanzialmente infrastrutture digitali.

**L’Hack-It! 98 dall’archivio di Ogino:Knauss

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